Mode culturali, ideologia e politica

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Negli anni settanta andava di moda Marx.

Molti facevano corsi accelerati di marxismo, studiavano i riassunti dei riassunti senza leggere i libri di Marx e ciò nonostante si dichiaravano ferventi marxisti.

Alcuni erano marxisti-leninisti. Altri erano maoisti. C’era chi leggeva Tronti, Panzieri, Toni Negri: i filosofi e politici dell’operaismo italiano. C’era chi si dichiarava gramsciano perché voleva l’egemonia culturale della sinistra, senza considerare che per capire Gramsci bisognava leggere attentamente Marx ma anche il liberale Croce. A sinistra tutti volevano fare gli intellettuali organici, anche persone improvvisate. Per i riformisti era d’obbligo sapere la teoria keynesiana.

Ancora oggi ci sono molti keynesiani tra i progressisti. Insomma ci  voleva l’intervento pubblico per far ripartire l’economia. Alcuni raffinati economisti italiani sostenevano che il moltiplicatore keynesiano era già conosciuto dai grandi banchieri fiorentini, che lo avevano chiamato saltarello.

A destra andava di moda leggere Nietzsche ed Heidegger. Il superomismo di Nietzsche poteva portare all’autoesaltazione. Nietzsche non può però considerarsi responsabile del nazismo se non in modo molto indiretto, come del resto Marx per i regimi comunisti. Il pensiero di Nietzsche fu deformato dalla sua sorella e da Hitler. L’antisemitismo di Nietzsche inoltre non era dispregiativo e violento, ma basato sulla paura indotta dalla superiorità culturale ebraica.

Molto probabilmente Hitler odiava gli ebrei per questioni personali e perché aveva letto il falso documento dei protocolli dei savi di Sion, non per colpa di Nietzsche. Heidegger era compromesso con il nazismo, ma non era nazista per quello che sosteneva, ma per quello che non scriveva, per quello che ometteva.

Per capire cosa è stato il nazismo bisogna leggere la Arendt e non Heidegger, ciò che la filosofa definisce banalità del male e ciò che scrive a riguardo del totalitarismo, anche se la sua concezione dello stato totalitario non è a mio avviso universale ma ancorata a quell’epoca e a quel contesto storico, sociale, politico. Heidegger quindi può essere letto da tutti. Non c’è bisogno di condannarlo a priori né a posteriori.

Naturalmente Heidegger è un grandissimo filosofo, scrive cose molto profonde sul nichilismo, sull’esistenza, sull’arte, sul declino della società occidentale, che nessuno aveva detto prima di lui. Inoltre in Italia il miglior interprete ed intenditore del filosofo tedesco è stato Emanuele Severino, uno studioso attento e molto equilibrato, che non ha mai travisato il pensiero di Heidegger.

Sono state tuttavia mode culturali. Certo ci può essere stato qualche facinoroso che tirava per la giacchetta il pensiero di questo o quel filosofo. Questo deve essere messo in conto. Per molti si trattava di mode. Solo pochi padroneggiavano la disciplina e gli argomenti.

Solo pochi studiavano severamente la materia ed erano veramente versati, veramente ferrati. Per molti si trattava di rimasticature, echi lontani, deboli influssi, vagheggiamenti. Acculturarsi di filosofia politica, di economia politica era comunque una imposizione dall’alto, i partiti lo esigevano e naturalmente erano disposti a fare scuola agli iscritti. Sempre negli anni settanta andava di moda a destra leggere Tolkien oltre ad Evola, Guénon, Spengler, Jünger. Era quasi un imperativo categorico.

Per i liberali italiani era un dovere culturale leggere Croce e Gobetti. Negli anni novanta per i liberali era quasi d’obbligo leggere Popper. I primi ad occuparsene nel nostro paese del filosofo austriaco furono Dario Antiseri e Marcello Pera. Sempre negli anni novanta e nei primi anni del duemila i liberali necessariamente dovevano guardare alle teorie dell’economista von Hayek, che non voleva l’intervento statale a differenza di Keynes.

Negli anni novanta e nei primi anni del duemila tutti i riformisti italiani leggevano o citavano Rawl e la sua teoria della giustizia. Per chi era di sinistra era un obbligo dover sapere qualcosa della teoria del potere di Foucault, del suo concetto di biopolitica, della decostruzione e del logocentrismo di Derrida, così come bisognava aver letto i libri di Chomsky, che criticava l’imperialismo americano.

Qualche decennio fa erano di moda anche la psicanalisi, lo strutturalismo, la semiologia. Poi sono finite le mode culturali o comunque non hanno la grande presa di un tempo sulle persone. Sono finite le ideologie e quindi le grandi mode culturali ad esse strettamente connesse.

Un tempo chi si occupava e si interessava di politica leggeva decine di libri ogni anno, leggeva ogni giorno più quotidiani. Era una minoranza, una cerchia di persone non dico intellettuali ma di buone letture. Ogni ideologia aveva sempre bisogno di pensatori, libri, teorie che continuassero a giustificarla.

Una ideologia non era qualcosa data per sempre. Perché aderisse efficacemente alla realtà c’era sempre bisogno di correttivi ed aggiornamenti. Inoltre per ogni ideologia spuntavano come funghi dei critici e di conseguenza gli intellettuali di parte dovevano prendere le contromisure a quelle critiche. Insomma era il gioco delle parti, le solite schermaglie culturali.

Ogni ideologia aveva bisogno di nuovi ideologi che la reinterpretassero e la rinnovassero continuamente. D’altronde noi esseri umani siamo degli esseri incompiuti. Per trovare compiutezza abbiamo bisogno di cultura: alcuni studiosi chiamano ciò antropopoiesi.

L’ideologia un tempo  doveva essere appresa, capita, interiorizzata, ma anche creduta. Il marxismo come il fascismo erano anche degli atti di fede che duravano tutta la vita. Un tempo si giurava fedeltà per tutta la vita ad una ideologia. Un tempo credevano alle ideologie, erano innamorati delle idee, credevano alcuni di avere la verità in tasca. Poi per alcuni era breve il passo dalla ideologia alla ubriacatura ideologica o al delirio ideologico, ma in questi casi era questione più che altro del lato Freud, di personalità di base.

Certamente c’era chi usava l’ideologia in modo strumentale per violenza e  sopraffazione. Oggi buona parte dell’elettorato è incerto, indeciso, si astiene dal voto. Un tempo mia nonna si vestiva in modo impeccabile per andare a votare. Era un giorno memorabile quello delle elezioni. Le persone si vestivano bene, non perdevano un capello. Adesso la politica italiana è molto più pragmatica. I politici non parlano più di convergenze parallele. Sono più diretti e non c’è bisogno che la base si acculturi. Si fanno comprendere da tutti. I politici di tutti gli schieramenti oggi sono molto social. Utilizzano il web per fare diffondere le loro idee.

Usano post brevi di Facebook, commentano i fatti del giorno con un tweet. Insomma ecco l’elogio della comprensibilità e della brevità. E se fosse questa non dico la democrazia dal basso ma una nuova forma di democrazia rappresentativa? Dell’ideologia è rimasto ben poco: il minimo indispensabile per dare una identità ai partiti e ai loro iscritti, per creare delle contrapposizioni tra di essi. La falce e il martello sono stati deposti in soffitta, a torto o a ragione. Sono finiti il senso di appartenenza, la fedeltà, la coerenza.

Sono finiti simboli, pratiche, riti. Bisogna farsene una ragione. Se ne facciano una ragione anche coloro che hanno scannato e si sono scannati per l’ideologia. Nel frattempo le multinazionali hanno conquistato i mercati ed hanno avuto la meglio su tutte le nazioni.

Ma in fondo di cosa avevano bisogno l’Italia e gli italiani?

Di stabilità politica, di sobrietà, di competenza, di lungimiranza, di oculatezza. Ideologia o non ideologia tutto questo nella prima repubblica non c’è  mai stato. Vedremo in futuro, se avremo futuro.

Davide Morelli

foto issuu.com

Redazione Corriere Nazionale

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