“I limoni e la malvarosa”, la Calabria lontana di Mariantonia Crupi

Arte, Cultura & Società

Di

Un universo al femminile, una casa nobiliare, un intero paese attraversato dal fiume

di Giovanni Jerfone

La malvarosa, o malvone, è una pianta con fiori rossi, rosa, bianchi, gialli, fucsia, che può raggiungere i tre metri di altezza. Malvone, però, sta anche a indicare chi è di idee conservatrici ed è sinonimo di retrivo, reazionario, retrogrado.

I limoni, invece, di cui tutti conosciamo i benefici, sono simbolo di salvezza, di fertilità e di fedeltà amorosa per la loro proprietà di produrre frutti durante tutto l’anno.

I limoni rappresentano le donne; la malvarosa appartiene agli uomini e, tra i limoni e la malvarosa, si rivela una panchina…

“I limoni e la malvarosa” (Adhoc Edizioni) è il titolo (malinconico e suggestivo), un po’ “gattopardo” un po’ “alla ricerca del tempo perduto”, del romanzo d’esordio di Mariantonia Crupi. Docente di lingue, impegnata in difesa dei diritti delle donne (a donna Maria Abatino fa dire “io credo che i tempi cambieranno”), del diritto allo studio (o Donna Marzia Arceri che denuncia “Troppe donne versano nell’ignoranza più totale”), da sempre legata alla Calabria, dove vive, questo libro è un estremo atto di gratitudine ad Acquaro, la sua terra d’origine. Un lungo viaggio di sentimenti e di memoria perché Mariantonia vi narra gli affetti e le amicizie, ma soprattutto un dono perché c’è il senso profondo della riconoscenza e della generosità.

Presentato di recente nel celebre castello Murat di Pizzo Calabro, il romanzo, dice la scrittrice, è la storia di “un universo al femminile, una casa nobiliare, un intero paese attraversato dal fiume Amello. Donne che dipanano le loro vite accompagnate dalle loro storie personali, unite e divise dal dolore, dalla vita, dalle passioni, dal lavoro. Storie di ritorni e ri-partenze”.

Già dal titolo si intuisce che è un libro “plurale”, che raccoglie cioè una molteplicità e una complessità di temi, di situazioni, di questioni.

Intanto il tempo, non importa se quello esteriore o quello interiore, se il tempo dell’infanzia o quello “creativo” o di tutto il tempo che la memoria può abbracciare e comprendere. E poi il rapporto passato-presente, sebbene in Crupi (nel finale del romanzo) il recupero del tempo passato è ancora possibile.

E, inoltre, la conservazione dell’esistente e l’ossimoro tra reazione e progressismo (conservatorismo-regressione per il carattere di nostalgico ritorno di alcuni personaggi); l’ansia per il futuro; il rapporto tra generazioni (diverse per età, per sesso, per idee e ideali); il rifiuto della modernità; la paura del confronto con l’altro, gli altri, il “diverso” (per censo, origini, condizione economica, scelta); la ricerca di qualcosa di solido su cui poggiarsi, qualcosa che funga da protezione, ma che non sia morboso e asfissiante.

Lo spazio. Uno dei temi più importanti e presenti in tutto il romanzo è la narrazione del paesaggio, non solo quello che fa da sfondo, ma tutto l’insieme formato anche da fragranze, odori, aromi (quelli del palazzo dei marchesi Caracciolo, per esempio, sono descritti minuziosamente persino nei piccoli, ma ricchi, particolari, come i cibi, le bevande, le ricette) consuetudini, suoni, luoghi e sensazioni, che servono per meglio definire i ruoli e le dinamiche tra i personaggi.

Il tema della socialità nel riconoscimento non solo delle differenze individuali, ma anche della comune appartenenza a una medesima umanità, alla stessa comunità. Presenze umane apparentemente viventi nel medesimo intervallo spazio-temporale, apparentemente somigliantisi, ma in realtà lontanissime tra loro come mentalità, percezione e visione del reale. 

Il libro è ambientato ad Acquaro, un piccolo borgo ai piedi delle Serre calabresi, e si snoda nel racconto di tre generazioni, tutte declinate, filtrate, da vicende di donne: popolane, borghesi, proletarie, aristocratiche, nobili; signorili e raffinate, volitive e determinate, fragili e delicate, ma sempre donne.

Ma “I limoni e la malvarosa” è un romanzo tutto al femminile non perché vi è una scrittura “femminile”, o “al femminile”, cioè più sensibile, accogliente, accondiscendente, liberamente disordinata e tutte le ovvietà che si dicono (e si scrivono) in questi casi. Il romanzo è al femminile perché le protagoniste sono donne: forti e amorevoli, caparbie e determinate, concordi e solidali. Lina, Diamante, Emma, Apollonia, Maruzza, la greca Vasiliki sono figure femminili che si emancipano attraverso esperienze dure e difficili: una violenza, un lutto, il degrado e il riscatto, una dipendenza affettiva, che diventa un’ossessione, una fuga e un ritorno.

In penombra, quasi al buio, i personaggi maschili. Riccardo, Edoardo, Pietro, Jean-Claude sono simulacri diafani, malaticci, fedifraghi e vigliacchi, incapaci di lottare. Il “successo” delle donne del libro è per loro fonte di malessere, li pone sulla difensiva.

Gli uomini non sono deboli solo nelle faccende di lavoro, ma anche di corrispondere al proprio ruolo. Nel migliore dei casi (Jean-Claude) più che una figura romantica, colta, gentile e tollerante, appare disorientata, quasi indifferente, inadeguata a stare nelle relazioni, low profile (blanda) nella gestione dei sentimenti, e così le donne (in questa circostanza Diamante) sono invitate ad abbassarsi al livello degli uomini per non metterli a disagio.

Su tutto predomina una scrittura evocativa, elegante, magmatica e densa, quasi materica (come i colori forti e luminosi della copertina di Marisa Costa) eppure morbida, proprio come le confetture che sono descritte così bene. Una scrittura in cui le emozioni, le sensazioni, non sono espresse in una scala di sfumature, di intensità, ma sono nominate con la consistenza di cose, di oggetti. In questo suo avvicendamento narrativo, la Crupi ci consegna un romanzo di formazione,  figure femminili con cui la protagonista ha una relazione significativa, la madre con cui ha una relazione verticale, Apollonia e Maruzza con cui ha una relazione orizzontale, paritaria cioè. Il racconto è soprattutto un’esaltazione dello spazio geografico, che è quello di Acquaro, ma anche delle sue colline (Malamotta) e delle sue campagne, un impasto sapiente e misterioso, pari a quello delle “nacatole” (un dolce prelibato e antico), che si concretizza “con un ritorno agognato e sofferto in una terra non sempre prodiga ma sempre amata”.

E, infine, ma non alla fine, c’è lei, una piccola panca di legno, posta tra i limoni e la malvarosa, che apre, puntella e chiude il romanzo. Un lungo filo rosso che cuce ogni snodo miliare del racconto. Perché? Perché la panchina è un luogo di sosta, certo, ma è soprattutto il luogo privilegiato dell’incontro, della relazione. In letteratura è lo spazio del dialogo tra i personaggi (è su una panchina che si conoscono Frédéric Moreau e Madame Arnoux in “L’educazione sentimentale di Gustave Flaubert; ed è proprio su una panchina che il protagonista de “La nausea” di Jean-Paul Sartre riesce a capire la natura del proprio male – la nausea, appunto – arrivando a percepire e a comprendere il caos e l’assurdità dell’esistenza) ed è, in particolare, il posto della riflessione dei protagonisti.

In fondo, poi, che cosa resta? Ciò che davvero rimane è il senso (o lo strazio) del ricordo. Perché solo nella memoria ritroveremo valori che avevamo dimenticato, scopriremo valori ignorati, ravviseremo gli errori del nostro passato e la fisionomia del nostro avvenire.

Sebbene tutto questo non sia ancora sufficiente. Perché alla base, proprio al principio di tutto, resta la percezione di un tempo glorioso, ma offuscato di malinconia e di rimpianto; un trascorso leggendario, ma un presente inquieto e insofferente, estraniante e straziante. Resta il dramma di una Calabria lontana. Lontana dalla ripartenza e dallo sviluppo, isolata dalla questione meridionale e nazionale, ancorata a vecchie – e pericolose – logiche di potere, incapaci di interpretare la complessità del momento; bloccata nelle sue sinapsi istituzionali.

E, tuttavia, resta pur sempre la terra dei limoni (e della malvarosa), terra di contraddizioni e contrapposizioni, ma pure di quell’originario patto di fedeltà e di amore salvifico, che fa comprendere a Diamante come “la sua terra le correva incontro, e avrebbe ridisegnato per lei, solo per lei, una nuova forma di futuro”.

 

Redazione Corriere Nazionale

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