DOSSIER // L’inadeguatezza amministrativa regionale dopo la riforma del titolo v della Costituzione

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Di certo la riforma del Titolo V della Costituzione non ha giovato al nostro sistema istituzionale, sottraendo allo Stato la competenza in tutta una serie di materie che, trasferite alle Regioni, hanno evidenziato appieno l’ inadeguatezza regionale, rispetto alla pregressa gestione statale.

Allorché i vari commentatori politici si occupano dell’ attività amministrativa delle Regioni, nelle diverse branche di competenza, non mancano di espressioni critiche, soprattutto, quando le disfunzioni regionali denunziate, hanno una ricaduta che interessa l‘ intero Paese . Si tratta, di frequente, di una critica, formulata in modo più o meno esplicito, che, tuttavia, si ferma lì; intendiamo dire che non si risale alle cause che tali disfunzioni hanno provocato, e comunque, se le cause sono individuate, non si prospetta la loro rimozione, quasi si trattasse di una condizione ineluttabile, un peso, quello dell’inefficienza regionale ,di cui ci si lamenta, ma che, tuttavia, va sopportato anche se a risentirne è l’intera comunità nazionale. L’idea regionale finisce, insomma, per essere sopraffatta da un regionalismo ideologico, ossia da un modello astratto che prescinde dall’esperienza pratica, e che, tuttavia, si subisce come fosse ormai qualcosa che non si può evitare. E, però, un Paese ordinato, non può rimanere a lungo prigioniero di un dottrinarismo che finisce per usare le Regioni come un freno all’attività politico- amministrativa statuale, che i tempi sempre più accelerati richiedono.

In realtà, il gravame legislativo e, soprattutto, amministrativo, che le Regioni si sono dovute accollare in seguito alla riforma costituzionale del 2001, si è dimostrato superiore alle loro forze e, a risentirne, è stato tutto il sistema Paese, che si è trovato a dover fare i conti con i continui vuoti e le insufficienze che hanno interessato quasi tutte le materie di competenza regionale. Con la conseguenza che lo Stato si è trovato, non di rado, a dover surrogare l’inerzia delle Regioni in settori strategici per l’economia nazionale, ma di competenza delle Regioni. In questa funzione di supplenza, perché lo richiede l’interesse nazionale, lo Stato si pone, però, in una posizione di contrasto con la Costituzione riformata e, tuttavia , non di rado ,non senza il consenso delle stesse Regioni titolari della materia, che mirano, però, a questo punto, a porre le proprie condizioni all’azione statale e dalle quali lo Stato non ne può prescindere, trovandosi in un’ intrinseca condizione di debolezza costituzionale.

E’, questa, appena descritta, una situazione che si ripete con non poca frequenza, quando si pensi alla quantità di materie che sono state regionalizzate dalla riforma costituzionale del Titolo V, voluta, e portata avanti con lucida follia, dall’allora Ministro della Funzione Pubblica Franco Bassanini, che ha fatto da traino al proprio partito, diventato protagonista, in modo assolutamente acritico, della riforma . Una riforma, con la quale si è capovolto il sistema costituzionale disegnato dai padri costituenti, per cui, oggi, le Regioni sono diventate Enti a competenza generale, e lo Stato, un Ente a competenza numerata; il che significa che allo Stato vengono attribuite un numero determinato di materie , ma ogni altra materia, non espressamente riservata allo Stato, appartiene alle Regioni, a livello di competenza concorrente , ma anche a livello di competenza esclusiva, come nel caso dell’Agricoltura, del Turismo, delle Foreste ecc..

 Un Ente, la Regione, che la Costituzione del 1948, aveva concepito come titolare di funzioni legislative ed amministrative in ordine ad un numero tassativo di materie secondo l’elenco fissato nell’art.117 della Costituzione, ora abrogato; ogni altra materia che non fosse stata compresa nell’elenco dell’art.117, era di competenza dello Stato. In tali materie le Regioni emanavano una legislazione concorrente con lo Stato, nel senso, che la normativa regionale doveva essere rispettosa dei principi fondamentali di ciascuna materia regionalizzata, i quali che venivano individuati dallo Stato attraverso le cosiddette leggi quadro o cornice. Lo Stato, d’altra parte, esercitava un controllo preventivo sulla formazione della legge regionale al fine di verificare l’eventuale lesione dei principi fondamentali della materia, di competenza – come si è già detto- statale. Ciò non escludeva, peraltro, la resistenza regionale.

 Questo, il significato di ordinamento regionale fino all’entrata in vigore della riforma del 2001, quando il rapporto fra lo Stato e la Regione è stato stravolto, e le Regioni, per la complessità dei poteri acquisiti, sono divenuti dei veri e propri organismi politici . Si è, infatti, dilatato oltre ogni misura, l’elenco , già previsto dal soppresso art.117, delle materie regionalizzate, con il trasferimento, insieme alla competenza legislativa, della funzione amministrativa e, con essa, degli Uffici preposti alla gestione della funzione . E si è addirittura prevista, come sopra si è accennato, la competenza esclusiva regionale per le materie che non compaiono espressamente riservate allo Stato, o dove questo non esercita una competenza legislativa concorrente con le Regioni. E’ venuto anche meno il potere statale circa la verifica preventiva di costituzionalità delle leggi regionali, di cui si è detto prima, nonché il controllo di legittimità sugli atti amministrativi delle Regioni, così come sugli atti dei Comuni che agiscono ora incontrollati, tranne che per gli aspetti di contabilità di competenza della Corte dei Conti. Una condizione costituzionale, insomma, che ha fatto perdere autorevolezza allo Stato e che è risultata insostenibile per le stesse Regioni, e per tutto il sistema delle autonomie locali minori investito della funzione amministrativa regionale. 

 Un solo esempio, che ci pare emblematico della situazione che si è creata, valga per tutti. Ci riferiamo alla materia del Turismo, che, in seguito alla riforma costituzionale, è divenuta di competenza esclusiva residuale delle Regioni. Ciò significa che lo Stato perde, rispetto a tale materia, ogni possibilità di intervento, anche a livello di legislazione concorrente , poiché la materia riveste un interesse esclusivamente regionale ; allo stesso modo, quindi, degli Stati federali e diversamente dagli Stati regionali- quale il nostro viene definito- dove rispetto alle materie regionalizzate, lo Stato esercita , come si è detto prima, una competenza concorrente.

Si diceva ora della materia “ turismo” per evidenziare l’incongruenza di un’assegnazione alle Regioni a livello di competenza esclusiva, incongruenza rilevabile nel fatto che oggi abbiamo un Ministero per il Turismo, dovendo, evidentemente, tener conto dell’interesse che ha il Turismo a livello nazionale, ma che, tuttavia, non si giustifica, perché confligge, una tale istituzione, con la previsione costituzionale di esclusività regionale. Eppure non c’è stata opposizione da parte delle Regioni all’istituzione ministeriale, evidentemente ritenuta da loro congrua, perché consapevoli della forzatura dell’ assegnazione regionale.

 Ma si può metter mano alla Costituzione con tanta superficialità ed anche insipienza ? Ed ora, come non denunziarne le incongruenze al fine di impegnarsi a rimuoverle ? Oppure rinunziamo- ma per quale ragione non si capisce- ad avere uno Stato che abbia una propria stabilità ed efficienza, com’ è per tutti gli Stati dell’Unione Europea ?

Di certo la riforma del Titolo V della Costituzione non ha giovato al nostro sistema istituzionale, sottraendo allo Stato la competenza in tutta una serie di materie che, trasferite alle Regioni, hanno evidenziato appieno l’ inadeguatezza regionale, rispetto alla pregressa gestione statale. Tanto più è incomprensibile, questo straripamento di funzioni regionali ,quando già vi era stato, negli ultimi anni del secolo scorso, un significativo decentramento amministrativo, e il rapporto Stato- Regione aveva trovato un suo equilibrio, tant’è che il contenzioso costituzionale fra lo Stato e le Regioni, prima vivace, era andato decisamente attenuandosi. La riforma della Costituzione del 2001 ha avuto l’effetto di rompere il delicato equilibrio che era stato faticosamente raggiunto, senza che ne sia risultato un vantaggio per l’interesse collettivo.

Oggi l’Amministrazione periferica statale è stata, nella sua quasi totalità- con l’eccezione delle Sovrintendenze ai Beni Culturali- spazzata via e sostituita dalle Amministrazioni Regionali e degli Enti locali, presso i quali Enti la materia viene ripartita – ma meglio sarebbe dire spezzettata- avendo fondata, tale attribuzione, sulla considerazione che si tratta di Enti democratici, diversamente dagli Uffici statali. Ed in effetti il criterio che presiede all’ assunzione nelle strutture periferiche dello Stato, è quello della competenza, accertata mediante una selezione conseguente ad un pubblico concorso.

Vi è negli Uffici statali periferici, un capo dell’Ufficio- responsabile del suo andamento- che utilizza un potere esteso, in generale, a tutto il territorio provinciale e potendo godere di una notevole autonomia rispetto al Ministro del quale è gerarchicamente dipendente. L’assunzione attraverso concorso garantisce il Capo Ufficio da pressioni esterne- esercitate, soprattutto, dai partiti- non dovendo rispondere del suo operato a chicchessia , se non alla propria coscienza, tant’è che sono stati pochissimi, nel corso della loro intera storia, i casi di corruzione del personale degli Uffici periferici dello Stato.

Se l ‘ immissione in ruolo mediante concorso, secondo la prescrizione costituzionale, è la regola per lo Stato, cui conviene l’efficienza del proprio apparato amministrativo- tranne che non si sia in presenza di situazioni emergenziali, che richiedono urgentemente l’assunzione di ulteriore personale- non altrettanto può dirsi per il reclutamento del proprio personale da parte delle Regioni, e degli Enti locali minori, ai quali la funzione regionale è stata trasmessa, secondo il dettato della Costituzione riformata. Di certo questi concorsi non vengono pubblicizzati e risulta indubitabile l’influenza dei partiti che governano l’Ente titolare della funzione ammnistrativa. E va anche considerato che non di rado la stessa funzione pubblica viene appaltata a delle cooperative che si sono formate senza alcuna garanzia per i terzi. Fatto sta che le Regioni ,come è noto, non sono riuscite a utilizzare che in modestissima percentuale, i Fondi comunitari che nel corso degli anni le ha viste destinatarie, per l’incapacità di dotarsi delle strutture tecniche necessarie e, allo stesso modo, del personale qualificato.

E’ probabilmente per questa ragione, che per la gestione dei Fondi europei conseguenti alla pandemia, Pnrr,  si sono cambiate le procedure attribuendo, in caso di inadempienza regionale, poteri sostitutivi al Presidente del Consiglio; questi, peraltro, è ormai privo delle strutture amministrative statali che la riforma costituzionale ha soppresso. Sintomatico dello squasso amministrativo che tale riforma ha prodotto, è che viene anche previsto, in questa legislazione d’emergenza, la possibilità di vanificare i ricorsi avanzati, eventualmente, dalle Regioni, per il mancato rispetto delle competenze regionali in conseguenza della riforma del Titolo V della Costituzione. Uno Stato, quindi, che intende espressamente rimuovere, nell’ interesse nazionale, i ceppi frapposti da un ordinamento regionale che ha oltrepassato i suoi limiti naturali.

Alberto Abrami

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