Vita di Re: Vittorio Emanuele III a Racconigi

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Per le vacanze estive dal 1901 alla vigilia della Grande Guerra Vittorio Emanuele III scelse il Castello di Racconigi a preferenza di altre residenze reali, come Castelporziano, San Rossore e, s’intende, la Villa di Monza, che “chiuse” all’indomani del regicidio. A Racconigi Vittorio Emanuele III alternò vita “pubblica” e “privatissima”.

Racconigi, un Paese di sogno: Vittorio Emanuele III e lo Zar Nicola II a Racconigi

“Qui a Racconigi mi trovo benissimo. Più vedo questo paese e più mi piace; siamo in mezzo al verde più completo e non lontani dalle colline, e le Alpi si vedono lontane ma non molto. Vado riconoscendo i dintorni a cavallo e in vettura; aspetto quanto prima un’automobile per estendere ancora più le mie gite.

La Città di Racconigi è piccola, e lontana abbastanza dalle grandi città. La casa mia è abbastanza grande, vi è un magnifico giardino a Parco di 184 ettari con laghi, canali; e piante ve ne sono di ben 150 qualità e molte altre qualità ne farò mettere.

Le proprietà mie intorno a Racconigi sommano a 1300 ettari circa, e sono molto frazionate; poco alla volta me ne rendo conto; ho il mio tavolino pieno di mappe, rilievi ecc.; tutti i giorni giro mattina e sera per conoscere il mio; è tenuto con ben poca cura; ma spero di rimettere ogni cosa a posto in un tempo relativamente breve; delle proprietà private nostre nessuno si era seriamente occupato dopo Carlo Alberto, mentre sono veramente meritevoli di cura, come le sole delle quali posso liberamente disporre.

Qui, nei sulè mort (cioè i sottotetti NdA) ho trovato molti interessanti ritratti dei Principi e delle Principesse di Carignano, e un bel ritratto del tempo della Duchessa Iolanda, moglie di Amedeo IX. Questi ritratti sono subito stati messi in posti di onore”.

   Così il 25 luglio 1901 Vittorio Emanuele III descrisse al generale Egidio Osio, già suo “Governatore”, il primo importante “impatto” con la sua “casa” a  Racconigi, ove era da poco giunto con la Regina Elena e la primogenita, Jolanda, per un soggiorno estivo. Gli dette appuntamento a Roma per il 29, anniversario dell’assassinio di suo padre, Umberto I, e aggiunse: “spero di poter rientrare qui il 31”.

  A Racconigi il trentaduenne re d’Italia era già stato almeno due volte. La prima il 28 agosto 1893 con il ministro della Real Casa Urbano Rattazzi jr, il generale Emilio Ponzio Vaglia e piccolo seguito. L’aiutante di campo Paolo Paulucci delle Roncole (un po’ pettegolo) annotò nel Diario che il Castello era l’unica proprietà privata del sovrano con la Palazzina di Caccia di Stupinigi.

Vittorio Emanuele vi tornò “in gita” il 31 ottobre 1898, quando fece una corsa da Torino, in un mese fitto di viaggi da La Spezia a Monza, Torino e ancora Monza, Napoli e Roma (per la “Commissione di avanzamento” dei gradi nell’Esercito) per rifugiarsi infine a Montecristo, lontano dalla capitale.

Ubi Rex…

Per le vacanze estive dal 1901 alla vigilia della Grande Guerra Vittorio Emanuele III scelse il Castello di Racconigi a preferenza di altre residenze reali, come Castelporziano, San Rossore e, s’intende, la Villa di Monza, che “chiuse” all’indomani del regicidio.

  Ubi Rex ibi Potestas con tutti i suoi “tentacoli”, la Casa Militare, la Casa Civile e l’esercizio di prerogative e funzioni. Per alcuni mesi l’anno Racconigi divenne la Reggia. Vittorio Emanuele III vi ricevette missioni di Stati anche remoti (Siam, Giappone, Persia, Abissinia…), presidenti del Consiglio, ministri, notabili, artisti e scienziati.

   Nel 1909 il Castello fu scenario della visita in Italia dello zar Nicola II Romanov, da anni programmata ma rinviata per gravi motivi: la guerra russo-giapponese, la prima rivoluzione in Russia, la crisi del 1908. Arrivato per mare a Marsiglia e proseguito in treno, lo “csar” (come all’epoca si scriveva) arrivò in Italia da Modane-Bardonecchia.

Vestiva “militare” come Vittorio Emanuele III, che lo accolse alla modesta stazione di Racconigi il 23 ottobre 1909 e lo condusse in carrozza al Castello, in tempo per la prima conviviale. Venne lasciata su altra carrozza la statuaria guardia del corpo, due metri di stazza, mantello rosso sino ai piedi.

L’incontro di Racconigi suggellò la lunga svolta della politica estera voluta dal re d’Italia, che, senza rompere l’alleanza difensiva con Berlino e Vienna, dal 1901 aveva avviato relazioni nuove con Parigi e ribadita l’amicizia con la Gran Bretagna, meta del suo viaggio di Stato nel 1903.

   Nei nove anni da quando l’aveva scelto per le vacanze, il Castello era migliorato molto ma non aveva i fasti del Quirinale, del Palazzo Reale di Torino e di altre splendide residenze “di Stato”. Però offriva il pregio più importante: la sicurezza, garantita dal presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, Giovanni Giolitti, che stese all’intorno una cortina di vigilanza, tanto discreta quanto impenetrabile. Il nonno dello zar, Alessandro II, era stato assassinato dinnanzi agli occhi del figlio, Alessandro III, da una nobildonna anarchica. Il padre di re Vittorio fu ucciso da Gaetano Bresci. Negli stessi anni vennero ammazzati il re del Portogallo, presidenti di Francia e Stati Uniti, primi ministri in Spagna e altrove…: tutti fautori di riforme. Che strano. Stessa sorte toccò a Sarajevo il 28 giugno 1914 a Francesco Ferdinando d’Asburgo che voleva ammodernare il vetusto impero d’Austria-Ungheria.

   Per ricevere degnamente Nicola II il re arredò il Castello. La regina Elena conosceva bene la sontuosità dei palazzi imperiali della Terza Roma a Mosca e a San Pietroburgo.

L’Italia non poteva sfigurare. I giornali annotarono tutto: “Continuano a giungere, inviati da Torino e da Roma, carri e furgoni carichi di mobili e di oggetti d’ornamento. Mentre uno stuolo di operai, agli ordini dei giardinieri più esperti s’adopera con tutta lena a spianare i viali del Parco, a cospargerli di finissima ghiaia, a rimuovere aiuole ed a creare artistici parterre di fiori, numerosi falegnami, tappezzieri ed elettricisti si avvicendano in un febbrile lavoro di arredamento, o meglio di rinnovamento delle sale. Una ditta di Torino ha inviato qui i suoi migliori e più abili operai, per surrogare tutte le tappezzerie, tutti i tappeti, tutte le tende. È una profusione spaventosa di mobili ricchissimi, di statue, di candelabri, di piante ornamentali, di lampadine elettriche.

Gli appartamenti del primo e del secondo piano saranno tra due o tre giorni completamente trasformati. Questo addobbamento speciale non è però destinato a rimanere ma è soltanto provvisorio”. Chiacchiere, forse anche per depistare.

  La visita rimase impressa nella memoria di Umberto, all’epoca principe di Piemonte, nato nel Castello il 15 settembre 1904. In un’intervista rilasciatagli a Cascais il 4 novembre 1979 Lucio Lami ne pubblicò i ricordi: “Rivedo poi, proprio come in una sequenza cinematografica, la visita a Racconigi dello zar.

Soprattutto la vigilia del suo arrivo, perché passai ore a guardare un reparto di bersaglieri che provavamo la sfilata nel viale davanti al Castello, quel bel viale con le piante di aranci.

Ero anche affascinato da un grande rullo compressore che andava su e giù sul piazzale, livellandolo a dovere. Dello Zar ricordo perfettamente le mani inanellate; potrei riconoscerlo ancor oggi dalle mani. Poi la sua giubba rossa e la sua voce. Parlava francese, con noi, ma appena poteva preferiva l’inglese. Dal suo paese aveva portato per noi ragazzi un giocattolo gigantesco, un intero villaggio russo riprodotto in legno in dimensioni ridotte; relativamente ridotte, visto che le costruzioni erano alte quasi mezzo metro. C’erano la chiesa, la casa del pope, le isbe, i recinti. Tutto era contenuto in una grande quantità di casse che furono portate in uno dei saloni del Castello, dove vennero aperte alla presenza di tutti. Alcuni di quegli altissimi cosacchi che l’Imperatore s’era portato appresso si misero all’opera per montarlo. Ricordo che lo Zar ci disse: Vi ho portato questo dono perché impariate a conoscere la Russia e sperando che un giorno verrete a visitarla”.

   Mentre i ministri degli Esteri dei due Stati mettevano a punto il Trattato che il 24 ottobre riposizionò l’Italia nel quadro delle Grandi Potenze, poiché la mattina era nebbiosa il re sostituì la partita di caccia con una corsa in auto a Pollenzo  passando da Carmagnola, Sommariva Bosco e Bra per far vedere allo zar il Castello, la vasta tenuta e le rovine romane, l’anfiteatro e i ruderi di un tempio. Nel ritorno a una delle due auto scoppiò uno pneumatico e i suoi occupanti fecero tardare il pranzo “di Stato”.

Il Re, la Regina, la nazione nascente

   Il Castello fu anche luogo d’incontro tra i reali, la popolazione e visitatori di tutte le classi sociali. Una volta la Regina Elena accolse a colazione una moltitudine di donne e di ragazze “interessandosi specialmente di quelle più umili e modeste, o meno fisicamente favorite dalla fortuna. A tutte faceva coraggio, le invitava a mangiare ed a portar via senza soggezione quanto avanzavano dalla lauta refezione. – Portate pure a casa – diceva; questa sera avete poi già da far a merenda e la cena”.

  A Racconigi Vittorio Emanuele III alternò vita “pubblica” e “privatissima”. Annotò: “Domenica la Regina ed io abbiamo celebrato il V° anniversario del nostro fidanzamento con una bella passeggiata di 360 km per Cuneo, Tenda, et Breglio. Siamo andati a Ventimiglia, poi lungo la riviera sino ad Oneglia, poi per Pieve del Teco abbiamo passato il colle di Nava e per Garessio, Ceva, Dogliani, Cherasco, et Brà, siamo tornati a casa; in 13 ore di gita”.

   Lungo il giorno il Re si occupava a lungo delle “questioni di Stato”, chiudendosi nel suo gabinetto col generale Ugo Brusati, primo aiutante di campo, e con altri segretari particolari, sbrigando la corrispondenza. Aprivano i grossi pacchi di carte, specie del ministero dell’Interno, che anche due volte al giorno gli venivano recapitati da Roma.

   Quando poteva, viaggiava in incognito. Un giorno partì dal Castello alle 4 del mattino. Vestito in borghese con cappellino di paglia e accompagnato dal generale Brusati si recò in phaeton guidato da lui stesso e scortato da alcune guardie cicliste a visitare la Tenuta di Pollenzo per esaminarvi di persona le migliorie.

All’andata percorse la strada verso Bra sbucando presso il Santuario della Madonna dei Fiori e transitò per Bra verso le 6. Alle 9 rientrò procedendo per strade di campagna, dalla Pedaggera alla salita del gerbido, girando così intorno a Bra. Tornò a Racconigi per Cavallermaggiore, deludendo le aspettative dei braidesi che, ormai avvertiti, lo attendevano nelle vie Vittorio Emanuele e del Santuario.

La mattina del 25 agosto, una domenica, per desiderio della Regina si tenne nel parco una festa per i fanciulli delle scuole della Città e dei dintorni. Verso le 9, narrano le cronache, gli alunni e le alunne (più di settecento) con i rispettivi maestri e maestre accedevano all’interno del Parco Reale dalla porta cosiddetta Torre Cinile, preceduti dalla banda della Società Operaia Umberto I, che, non appena scorti i sovrani, i quali, per meglio vedere, si erano affacciati da un ripiano dello Scalone, ha cominciato a intonare la Fanfara Reale, mentre i bambini procedendo in fila gettavano mazzetti di fiori, omaggio visibilmente gradito alla Regina.

Al termine della sfilata tutti il direttore didattico, cavaliere colonnello Luciano, pronunciò un discorso patriottico. La Regina si intrattenne  affabilmente con i bambini degli asili e con le fanciulle. Il re, in bassa tenuta di generale, fece altrettanto con gli alunni delle scuole elementari. La regina vestiva satin gris perle con largo cappello.

Ottenuto il permesso di prendere d’assalto le due lunghe tavole, cominciò la vera festa mentre la banda eseguiva un programma scelto.

Un bambino lamentò con un “anziano” di non aver ancora bevuto nulla; l’“anziano” provvide. Era Vittorio Emanuele III. Alle 11 iniziò a piovere e ognuno tornò “a casa”.

  Il Castello era anche la “base” per salire nelle valli, in specie sopra Sant’Anna di Valdieri o a San Giacomo d’Entraque, per pesca e caccia al camoscio. Ne hanno scritto Walter Cesana in “I Savoia in Valle Gesso” e Alessandro e Simone P. Milan in “Residenze Reali di Casa Savoia nel Distretto di Caccia di Valdieri in Valle Gesso (1864-1943), libri “di nicchia”.

   Il 28 agosto 1901 i sovrani andarono in automobile a Moretta per visitare il caseificio dei fratelli Barberi. Ne accenna “Moretta. 120 anni di industria agroalimentare” curato da Antonio Battisti, Maria Cristina Moine, Mario Piovano e Domenico Podio per l’UniTre di Moretta (settembre 2021).

Lì avveniva la trasformazione della maggior parte del latte del circondario di Saluzzo: “Verso le 9 (venne narrato) l’automobile reale si fermava nell’ampio cortile del fabbricato tra la sorpresa degli operai presenti; discesone il re ha subito pregato il proprietario, Attilio Barberi, venuto ad accoglierlo con alcuni collaboratori, di non interrompere i lavori e gli ha raccomandato il silenzio sulla sua venuta.

All’interno gli augusti visitatori si sono molto meravigliati delle potenzialità del macchinario, della modernità dei sistemi di lavorazione, della finezza dei meccanismi delle scrematrici, su cui scorrevano continuamente fiumi di latte, e della coagulazione del latte col caglio. Poscia i reali si sono recati a visitare le stalle annesse al caseificio, dove sono allevati migliaia di suini di tutte le razze.

Terminata la visita il re si è congedato e si è congratulato vivamente coi fratelli Barberi. Dopodiché la reale comitiva si è diretta nuovamente verso Racconigi dove giungeva dopo le 10, ora in cui, a causa della fiera nelle strade dove è passato l’automobile reale, cioè via Regina Margherita, Piazza Carlo Alberto e via Umberto I, la molta gente venuta da fuori ha salutato vivamente i sovrani visti per la prima volta.

All’ingresso ovest del parco reale detto Porta del Cinile le Loro Maestà e i principi sono scesi dall’automobile e si sono recati facendo pochi passi al grande setificio dirimpetto, detto Potagero, di cui è proprietario il cavalier Sacerdote, ivi accolti dal direttore Giordano, anche se quasi subito è arrivato anche il cav. Sacerdote prontamente avvertito della presenza degli augusti visitatori, ai quali dopo averli ossequiati ha dato loro le più minute spiegazioni.

Purtroppo essendo la trattura della seta nella filanda ferma i reali si sono dovuti accontentare di vedere in funzione la sola lavorazione nel filatoio che hanno esaminato attentamente dal “baratrone” all’“incannatoio”. Al termine del sopralluogo, gli operai e le operaie stupefatti della visita inattesa prorompevano in una spontanea ed entusiastica acclamazione ai sovrani i quali a loro volta hanno salutato operai e proprietario mostrandosi vivamente soddisfatti”.

  Una decina di giorni dopo, la domenica 8 settembre, i reali andarono in treno a Saluzzo per assistere allo scoprimento del busto in bronzo di Umberto I (oggi nascosto in un “deposito”, come quelli di Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele II), opera dello scultore Leonardo Bistolfi, massone, molto apprezzato da Vittorio Emanuele III. Era il coronamento delle feste per il terzo centenario dell’annessione dell’antico Marchesato di Saluzzo ai domini di Casa Savoia.

Poi visitarono la Cattedrale, ricevuti dal vescovo monsignor Mattia Vicario, dal capitolo e dal clero e il grandioso “Ospedale” Tapparelli d’Azeglio.

   Erano anni operosi, di progresso e di coesione civile nell’Europa della “Belle Epoque”. Il “sistema” istituzionale, però, era e rimase un triangolo scaleno mentre cresceva la tensione militare tra gli Stati. Anziché appagati dall’espansione coloniale accelerata dal 1880 le maggiori potenze vennero travolte da un’onda di ritorno che si ripercosse sui confini più fatiscenti, a cominciare dall’impero turco, e nei Balcani sino a innescare la Grande Guerra.

Tornarono a soffiare inarrestabili venti di guerra. Anche l’Italia intervenne. A fine maggio del 1915 da Roma il “re soldato” si trasferì a Martignacco, presso Udine, in zona di operazioni. Poco a poco Racconigi perse il rango di “capitale estiva” del Regno d’Italia.

   Nei quarantasei anni di trono Vittorio Emanuele III visse per l’Italia, uno Stato che da appena trent’anni aveva Roma capitale quando egli ereditò la Corona, un Paese che nel suo mezzo secolo di regno ebbe alleati, ma nessun vero amico.

Aldo A. Mola

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