Non solo Elodie, Gabbani, Bianca Atzei: tutte le pagelle dei dischi in uscita

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Qualche sorpresa in positivo, qualche delusione imprevista. Molte conferme (in positivo e in negativo)

© AGF – Elodie

Il cafonal pop di Elodie suona ma non convince, molto meglio Francesco Gabbani, che propone l’ennesimo brano tanto efficace quanto significativo. Fulminacci arricchisce di due splendidi inediti il suo “Tante care cose”, mentre Hu ci regala un disco psichedelico e ipnotico. Agitate le acque in zona rap, l’”OUV3RTURE” di Lazza che rappa su Chopin è magnifica, male invece Mecna e CoCo, che ospitano un prescindibile Sangiovanni, così come Paky, rapper dai numeri stratosferici ma evidente non ancora pronto. Nel mondo (ei fu) indie, ottimo il nuovo singolo di CIMINI, esplosivo quello dei FASK, maturo quello di Galeffi, riporta alla pace interiore quello di Simona Molinari; mentre è letteralmente imperdibile il disco di Emanuele Colandrea. Chicca della settimana: “Ritorno a casa”, struggente ballad degli esordienti Giovani Telegrafisti.

Elodie – “Bagno a mezzanotte”

Ottimo ma dimenticabilissimo cafonal pop, perché anche il cafonal pop è giusto che abbia una dignità e autori e interpreti e producer che lo sappiano impacchettare come si deve. Il brano è scritto (anche) da Elisa, probabilmente con il piede sinistro, perché “Uno, due, tre, alza il volume nella testa, è qui dentro la mia festa baby” è una roba che ci aspettiamo da un trapper minorenne, non da un’autrice tra le top in Italia. La sensazione è che tutto il progetto si regga più sul bellissimo video girato dai Morelli Brothers e sulla produzione della premiata ditta Marz e Zef. I proventi di questo brano finiranno nelle tasche di Save The Children quindi, visto che si tratta di un lavoro che certamente suona, non vi dispiacerà rendere sensato un vostro ascolto, per cui streammate a volontà.

Francesco Gabbani – “Volevamo solo essere felici”

Gabbani ha un senso dell’efficacia particolarmente sviluppato, per cui riesce ad incastrare contenuti profondi dentro melodie del tutto accessibili. Uno stratagemma cui risvolto è che a primo ascolto quei contenuti appaiano più leggeri di quanto non siano in realtà, ma ascoltate questa “Volevamo solo essere felici” seguendo i versi con il ditino e vi accorgerete che mica il pop italiano è pregno di strofe che recitano “Questa notte sembra un miraggio/un profumo che dura poco/l’incoscienza che dà il coraggio/anche di ridere in faccia al vuoto” e neppure di ritornelli tipo “Volevamo solo essere felici/come ridere di niente/masticare sogni audaci/e fidarci della gente”. Questo perché, è chiaro, strutturare in un’opera concetti così complessi, e qui parliamo dell’estenuante ricerca della felicità che condiziona ogni giorno la nostra vita, senza risultare “pesanti” al largo pubblico, è compito assai arduo. Gabbani ci riesce, non da oggi, ma anche dalle troppo facilmente bistrattate “Amen” e “Occidentali’s Karma”, con funambolica scioltezza. Questa non è la sua forza, non è la necessità di piacere a tutti i costi, è il suo talento.

Fulminacci – “Tante care cose e altri successi”

Fulminacci, a nostro parere il vero predestinato del nuovo cantautorato italiano, conclude la narrazione del suo “Tante care cose”, il disco uscito all’indomani del debutto a Sanremo, con quattro inediti. Due sono già usciti, “Chitarre blu” e “Brutte compagnie”; oggi propone “Sembra quasi”, una struggente ballad carica di nostalgia in cui l’artista sembra quasi aggrapparsi alle parole per non farsi ingoiare da una Milano senz’anima ma con la stessa luna del resto del mondo, stella cometa da seguire con lo sguardo e con il cuore per non lasciarsi trasportare a largo nel vasto oceano senza orizzonti dell’abbandono. Una roba che succede in città come Milano. In pratica, un brano semplicemente commovente, una roba che ti condanna al fumo, all’occhio lucido, che ti riaccende tutte le mancanze, tutte le nostalgie. “Aglio e olio” invece, in cui ospita anche qualche barra di Willie Peyote, è un brano giocato in punta di penna e di chitarra, Fulminacci in questo caso stiracchia un po’ quello straordinario talento nella costruzione del testo, quei giochi di parole paraironici che tanto ci ricordano il primo Daniele Silvestri e la capacità di dosare chirurgicamente le interpretazioni. In linea di massima torniamo a scrivere di lui ciò che non è possibile tenere in secondo piano, non certamente in un periodo in cui le idee sono sempre carenti, accennate, spesso insufficienti, alle volte perfino deliranti: Fulminacci dall’esordio ad oggi, di fatto, non ha mai sbagliato un pezzo.

Lazza – “OUV3RTURE”

Di tutte le possibili declinazioni del genere urban quella di Lazza è certamente tra le più esaltanti della scena italiana. Non solo perché un rapper tecnicamente preciso nella costruzione delle barre, ma perché, essendo un bravissimo pianista, trascina sempre il suo talento in quella direzione. Chiede di più a se stesso, mettendo a frutto una preparazione musicale, oggettivamente merce rara in quell’ambiente lì, per far sbrilluccicare i propri lavori. Per esempio, divide questa “OUV3RTURE” in due parti, quasi a voler rappresentare in musica la propria visione meravigliosamente schizofrenica, il proprio Yin e yang sonoro; il brano parte con un rap sul “Notturno in Do diesis minore” di Chopin per poi sfociare, quasi rabbiosamente, sulla produzione del genietto Low Kidd. Bravissimo. Piacevolissimo.

Mecna feat. CoCo e Sangiovanni – “TILT”

È un brano che funzionerà, perché Mecna e CoCo sono bravi nell’accentuarne l’interpretazione con garbo ed evidente divertimento. Sangiovanni lo relegano ad occuparsi di un ritornello e, fondamentalmente, a macinare stream con le adolescenti; nel senso che il ragazzino poteva esserci o non esserci, il “Tu mi mandi in tilt/Du bi du bi du bi da da” potevamo anche registrarlo noi al secondo Negroni. Chiaro il riferimento nel sound a quell’incrocio tra contemporary R&B, rap e pop che tanto va forte negli Stati Uniti, quell’accenno ai vari Pharrell Williams e Justin Timberlake; ma per rispetto alla storia di Mecna e CoCo facciamo finta che non ce ne siamo accorti, perché la sola idea che Mecna e CoCo possano ergersi a Pharrell Williams e Justin Timberlake italiani ci intristisce enormemente. “Du bi du bi du bi da da”.

Fast Animals and Slow Kids – “Vita sperduta”

In un brano concepito per abbracciare il pubblico, per esplodere durante i ritrovati live, i Fask riescono, come sempre, a buttarci dentro un’affascinante inquietudine, un pezzettino di vita da rivitalizzare, da evidenziare, da accentuare, che ha bisogno di un po’ di rock all’italiana, suonato con quella pulizia e autenticità tipiche degli amati Fask. “Vita sperduta” in questo è esemplare, mortifica il nostro immobilismo in questo frenetico e delirante flusso: non abbiamo tempo per niente e niente alla fine ci rimane in mano, mentre i giorni passano e le stoviglie sporche nel lavandino aumentano. Bravi, come sempre.

Paky – “Salvatore”

Un disco diviso in due parti uguali, tranciato a metà da un monologo struggente dello stesso Paky che spiega perché il disco si intitola “Salvatore” e perché ha sentito la necessità di dividerlo in due parti, una prima più luminosa, più in linea con i temi soliti della scena rap: la rivalsa sociale scaraventata su barre sprecise che non racconta nulla che non abbiamo già sentito mille volte; una gran noia dalla quale non ci salvano nemmeno Marracash (che duetta con lui) o Night Skinny, Drillionaire, Andry The Hitmaker e Sick Luke, che si alternano alla produzione. Più intrigante la seconda parte, quella più conscious, in cui viene fuori l’angoscia, l’autenticità, la narrazione, l’incantesimo urban che ti costringe ad ascoltare cosa si sta raccontando. Purtroppo il bilancio alla fine risulta sempre insufficiente, non riteniamo il ragazzo proprio pronto; se quello sbiascicare per qualcuno è una nota distintiva, a noi risulta solo che si capisce poco o niente di ciò che pronuncia. E poi ancora, le barre sono poco strutturate, manca poesia, tutto è spiattellato, didascalico, senza alcun riguardo, nemmeno per ciò che si sta raccontando. “Salvatore” è un lavoro superficiale, Paky sembra accontentarsi di incidere ciò che vuole dire su un disco, senza preoccuparsi dei dettagli ma, anche se tutto ci dice il contrario, non è così che si fa musica che rimane. Infatti di “Salvatore” rimane solo lo struggente racconto che il rapper ci concede; avesse mantenuto quella nostalgia, parleremmo di tutt’altro disco.

PSICOLOGI – “Fiori morti”

Tematica amorosa in salsa teen; un buon brano che presenta pregi e difetti della musica di oggi: produzione cool che addolcisce i lineamenti del sound, miscelata ad una totale e sinceramente inspiegabile incapacità di pronunciare le vocali.

Hu – “Numeri primi”

Nella vita serve attenzione, il disimpegno nella musica è una delle più deleterie ed insopportabili abitudini mai manifestate nella storia delle arti. Ecco, serve attenzione per rendersi conto di che razza di perla ci ha regalato Hu, artista eccezionale, visionaria, che ci propone un disco ipnotico, psichedelico, ottimamente fatto. All’interno, è chiaro, anche “Abbi cura di te”, una delle più belle e sottovalutate canzoni in gara all’ultima edizione del Festival di Sanremo; un brano che naturalmente influenza la matrice cantautorale di tutto il disco, che di base avrebbe anche potuto avere dei connotati più clubbing, che è lì che la nostra Hu gioca in casa. Invece no, con una delicatezza disarmante, la cantautrice di Fermo ci guida garbatamente attraverso un viaggio fatto di colori tenui, di morbidezza di suono, di estraneazione da una realtà che ti rendi conto quanto sia buffa e storta solo quando fai un passo indietro, respiri profondamente e ti concedi in tutto e per tutto alla bellezza. Lasciatevi cullare da brani come “Avec Moi”, “Mamma” e “Temporale”, abbracciate la vostra unicità da numeri primi. Ne varrà la pena.

CIMINI – “Limoni”

La leggerezza di un bacio, degli orizzonti che ti si aprono mentre succede, le lancette che rallentano, il cuore al contrario che accelera alimentando quella distopia che ti fa saltare il cervello dalla gioia. E poi non era amore, ma un limone, nel senso di prolungato bacio con la lingua, ricco di saliva ed eccitazione, si, ma niente di più. CIMINI torna a colorare la vita, anche quando non gira per il verso giusto, con quell’innato talento nello sdrammatizzare, nel ridurre casuali manifestazioni umanistiche (o sfighe, se preferite) ciò che la nostra indole tenderebbe a trasformare in irrimediabili tsunami dell’anima. Che poi, un limone, mica male; conosciamo serate, molte, la maggior parte, finite decisamente peggio.

Galeffi – “Appassire” / “Due girasoli”

Se con “Appassire” l’ottimo Galeffi ci propone una versione più matura di quella sua idea musicale con la quale ha cambiato i connotati della musica leggera italiana ai tempi della rivoluzione indie; con “Due girasoli” invece si addentra, felicemente, in un universo decisamente più adulto, dominato dalla calma, da un leggero valzerino di fondo, le parole si allungano, quasi si stiracchiano, e si notano con più precisione le intenzioni, il sentimentalismo deciso ma mai spicciolo, una nuova seriosità che non svacca mai in autocompiacimento. E la bravura nel fare entrare l’ascoltatore in scioltezza dentro le proprie storie, ma quella è proprio specialità della casa.

Giorgieness – “Tra chi fugge e chi resta”

C’è un momento ben preciso alla fine di ogni storia d’amore, arriva in linea di massima quando la storia è già finita, quando addirittura la fine è metabolizzata, quando già ci si è disperati, arrabbiati, insultati, appassiti e rinati. È il momento in cui con lucidità si osserva quel sentimento con uno zoom più largo, facendo due o tre passi indietro. Ecco, “Tra chi fugge e chi resta” traduce quel momento lì, quando sei sull’orlo del menefreghismo, quando ammetti che quella storia è stata un errore ma anche che “era giusto sbagliare”. Giorgieness è davvero la migliore per quel che riguarda queste narrazioni così coinvolgenti, è capace di raccontare storie che non sappiamo se lei abbia vissuto o meno, ma che certamente tutti noi si. È un tocco, una magia, con cui poi la cantautrice confeziona un pezzo stupendo, cosa che, lo ammettiamo, ormai non stupisce più di tanto.

Maurizio Carucci – “Metà mattina”

L’elogio della semplicità, delle mattinate che passano normalmente, dei pensieri che, chissà perché, alle volte scelgono di alleggerirsi e poi frantumarsi in un “Ti voglio bene”. Che ci vuole? Perché quelle parole spesso ci restano incastrate tra i denti? Sono questi attimi di lucidità, solitamente, che ci trattengono dallo scappare per strada urlando come matti inneggiando a catastrofi, invasioni aliene, ire divine e nuovi dischi di Laura Pausini; ma altre volte possono anche semplicemente farci rendere conto che in fondo è il momento di chiamare chi se lo merita per un “Ti voglio bene”. In questa canzone si percepisce netta la necessità di Carucci, che conosciamo come cantante degli Ex-Otago, di prendersi uno spazio proprio, un angolo di intimità musicale tutto suo.

Bianca Atzei feat. Ciao Sono Vale e Danti – “Videogames”

Un trio interessante coinvolto in una canzone tutto sommato piacevole. Certo, il tema dei videogames dentro i quali i protagonisti hanno le “vite” usato come metafora facile facile per parlare di nuove opportunità nella vita, è stravecchio, però il brano suona, innegabilmente suona, nonostante non ricordiamo perché ci sentiamo in dovere di recensire ciò che fa Bianca Atzei, sulla scena da un indefinito numero di anni ma, di fatto, solo con un disco nel palmares risalente al 2015. Danti, che oltre a rappare, produce il brano, si conferma essere uno che sa come lavorare seduto al mixer, sa come costruire lo scheletro di una canzone che deve necessariamente funzionare. Magari “Videogames” non spaccherà in due le classifiche, ma ascoltarla non è la cosa peggiore che possa succedere.

Simona Molinari – “Lei balla sola”

Dovremmo tutti vivere in un brano di Simona Molinari, non solo perché ascoltarla è sempre un piacere, non solo perché la sua voce solletica il cervello, rende immediatamente tutto più luminoso, non solo perché il suo modo di intendere la musica mette in qualche modo pace, che è un concetto al momento decisamente centrale nelle esistenze di ognuno di noi, o almeno dovrebbe; ma perché non venga mai scambiata la delicatezza per mancanza di incisività, Simona Molinari con il suo swing arriva in punta di piedi e un bel sorriso dove gli schitarratori folli, i rapper arrabbiati, i reggeatari sculettanti e i cantautori duri e puri, spesso non si sognano nemmeno di arrivare. Questa “Lei balla da sola” è un tripudio di delicatezza e raffinatezza. Grazie.

Baltimora – “Marecittà”

L’indecisione nel titolo riflette un po’ quella ascoltando il disco, il primo dopo la vittoria di X-Factor (ce n’eravamo dimenticati, abbiamo dovuto controllare su Google). Baltimora di questa invisibilità, di questa eterea non presenza, di questo silenzioso anonimato artistico, ne ha fatto un po’ la cifra stilistica. I brani di questo “Marecittà” non sono male, anzi, inquadrano con diligente precisione quello che sta accadendo nella musica attuale; il problema è che se sta già accadendo o contribuisci a portare avanti il concetto, o contribuisci a deviarlo, o, insomma, per farla breve, ti impegni per renderti in qualche modo unico e visibile; oppure sei solo uno discretamente in gamba nel costruire brani, e Baltimora lo è certamente, che si aggrappa affannosamente al carro dei vincitori. “Marecittà” suona bene, impossibile dire il contrario, ma manca decisamente, categoricamente, di personalità. In tutta onestà, proprio non sappiamo che farcene.

MYDRAMA – “L’una di notte”

Che MYDRAMA avesse dei numeri si vedeva anche quando si è timidamente approcciata a X-Factor, c’era una sorta di malinconia che le pulsava dentro ma che all’interno del format non ha mai trovato la strada per uscire. Ecco, ora ci siamo, o perlomeno siamo arrivati ad un punto, “L’una di notte” non è un capolavoro assoluto, anzi sa di già sentito, in un mondo in cui esiste Mara Sattei magari MYDRAMA potremmo anche risparmiarcela, se non fosse che proprio questa malinconia in questa “L’una di notte”, a sprazzi esce furibonda e coinvolgente.

Emanuele Colandrea – “Belli dritti sulla schiena”

Un disco di Emanuele Colandrea è sempre un’ottima notizia per la musica italiana. Torna dunque Colandrea, torna mantenendo quella potentissima ed evocativa narrazione dei fatti della vita, torna pizzicando le corde di quella chitarra con il suo solito garbo, un suono semplice e dolce che accompagna quella solita commovente cantilena, quella poetica così diretta ed essenziale. Colandrea con queste dieci bellissime canzoni, tutte, nessuna esclusa, ci porta un po’ a spasso, sul ciglio di un vulcano, in un bosco, perfino a Velletri e Gerico, dimostrandoci che siamo noi a rendere epico ciò che viviamo e che se aspettiamo che sia la vita a rendere noi epici, fa prima ad arrivare Godot. è un disco che va ascoltato tutto, così come dovrebbe essere sempre per i dischi in realtà, a noi però ci sono piaciute particolarmente “Ok Emanuele”, “Buona fortuna amore mio”, “La fortuna di perdersi nel bosco” e “Gerico”, tutti brani nei quali si nota una sorta di ottimismo di fondo che si materializza nelle nostre orecchie particolarmente confortante.

BORIANI – “Alla fine”

Pop schizofrenico che si apre quasi strizzando l’occhio al blues, un esperimento molto molto interessante, per poi esplodere in un ritornello urlato, disperato, improvviso, forse anche troppo. Certamente da smussare certi spigoli nella scrittura, certamente da modellare certi passaggi nell’armonia di un brano che arranca un po’. Non è un no, ma non è nemmeno un si.

Artù – “Mezzanotte meno un quarto”

Un grido notturno e liberatorio in un brano solidissimo, forse tra i migliori sfornati ultimamente dall’ottimo Artù, che come al solito condisce tutto con quel timbro graffiato, quella romantica spudoratezza e una rabbiosa e coinvolgente voglia di lasciare tutte le rotture della vita alle spalle.

Kaufman feat. Ciliari – “Caramelle”

Un amore rievocato con le immagini, con la metropolitanità del nostro vivere, in una canzone che procede semplice ed efficace. E caramelle fino a mattina, una soluzione insolita ma furba e ironica quella dei bravissimi Kaufman, occasionalmente accompagnati dall’altrettanto bravissimo Ciliari, per passare la notte, per sopravvivere alle ore. Per farcela.

Karakaz – “Amore carnale”

Ai tempi di X-Factor ci era venuto il sospetto che dietro quel furioso ed inutile schitarrare di Karakaz non ci fosse questo granchè. Questa “Amore carnale” però, bisogna dirlo, non è la cosa peggiore mai successa nella storia dell’umanità, anzi prende, il sound è intriso di cazzimma, forse a convincerci poco è quello sbiascicare da rockstar drogatissima che in tutta sincerità sfiora quasi il ridicolo e che consigliamo al prossimo giro di lasciare a casa nel cassetto dei pantaloni di pelle.

Carlo Corallo feat. Murubutu – “Storia di Antonio”

L’amaro destino di Antonio Ligabue raccontato in un rap commovente da due fenomeni veri. Un omaggio sentito, romantico ed intellettuale ad un genio sempre troppo poco celebrato.

Mr. Oizo feat. Phra e Crookers – “Voilà”

Una collaborazione perfetta per un disco geniale in cui i confini tra i generi vengono drasticamente ed elasticamente allungati fino all’impensabile. Un po’ di R&B, un po’ di soul, perfino qualche goccia di blues, e poi il rap old school di Phra e dei Crookers incastonato in produzioni estremamente cool firmate da quel geniaccio di Mr. Oizo, musicista e regista francese visionario. Un disco da accompagnare con un buon bicchiere e le gambe pronte a ballarsela per il salotto, ma con gusto, con raffinatezza, un po’ alla francese, appunto; in un viaggio che dura sempre troppo poco. Che magnifica musica. Bravissimi.

Gobbi – “Una tenda”

La poesia dell’incertezza, di questo fardello pericolosamente pesante che stiamo lasciando in eredità a chi verrà dopo di noi. Il mondo va allo scatafascio e Gobbi ci restituisce la sua impressione, ci offre la propria visuale; ed è catastrofica e colpisce forte allo stomaco e riduce le nostre priorità a inutili e ridicoli atti di protagonismo in un film che non vedrà mai nessuno. Bravo.

Giovani Telegrafisti – “Ritorno a casa”

Il confronto spietato con il proprio passato, con la propria intima nostalgia, quella che ci riporta velocemente alla dolorosa realtà: crediamo di essere qualcuno invece siamo solo risultato di qualcosa. E abbracciarla e volerle bene a quella nostalgia, a quella personalissima forma di epicità, fatta di immagini croccanti, di odori rassicuranti…e poi il mare, che “è bello anche d’inverno”. La bellezza antica, quasi impolverata, come quella di un tesoro nascosto, di “Ritorno a casa” è semplicemente commovente.AGI

 

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