Perché rinunciare al petrolio russo è così difficile per i Paesi dell’Ue

Economia & Finanza

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Secondo i dati di Bp, le esportazioni russe di greggio e prodotti petroliferi in Europa rappresentano il secondo maggior flusso bilaterale di petrolio al mondo, solo dietro quello tra Stati Uniti e Canada.

© VINOGRADOV IGOR / SPUTNIK / SPUTNIK VIA AFP – Russia, condotta petrolifera

AGI – L’Unione europea ha preso ancora tempo a imporre l’embargo sul petrolio russo. La misura è stata invece adottata (l’8 marzo) senza troppi tentennamenti da Stati Uniti e Gran Bretagna pochi giorni dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Uno dei motivi di questa discrepanza è nei numeri. Secondo l’Aie (Agenzia internazionale dell’energia) la Russia, maggior esportatore di greggio al mondo, alla fine del 2021 vendeva sui mercati globali quasi 8 milioni di barili al giorno. Di questi, il 60% arriva in Europa, l’8% in Usa e Gb. Secondo i dati di Bp, le esportazioni russe di greggio e prodotti petroliferi in Europa rappresentano il secondo maggior flusso bilaterale di petrolio al mondo, solo dietro quello tra Stati Uniti e Canada.

Nella Statistical review of world energy, il report annuale di BP, nel 2019, l’ultimo anno prima della pandemia, la Russia aveva fornito il 29% delle importazioni di greggio europee e il 51% di quelle di prodotti petroliferi del continente.

Londra pur aderendo all’embargo statunitense ha detto subito che lo stop delle forniture sarà graduale e avverrà entro la fine dell’anno. L’import di idrocarburi (petrolio+gas) russo per Washington vale circa l’8% (3% il greggio) pari a 700.000 barili al giorno. Imporre un embargo immediato “da un giorno all’altro significherebbe far precipitare il nostro paese e l’intera Europa in una recessione”, ha detto il cancelliere tedesco Olaf Scholz recentemente.

E proprio mentre il cancelliere tedesco parlava, il vice-premier russo, Alexander Novak, spiegava che con l’embargo europeo i prezzi potrebbero arrivare a 300 dollari al barile.

Comprare il greggio in medio oriente

Nel breve termine, quindi, diventa estremamente difficile la sostituzione del greggio russo. Questa settimana, proprio a seguito dei rumors, le quotazioni sono salite di un altro 10% con il Brent, l’indice di riferimento globale, che ha sfiorato in chiusura di contrattazioni i 120 dollari al barile. I sostenitori dell’embargo ritengono che sia possibile eliminare il petrolio russo che arriva in Europa reindirizzando i flussi internazionali, riducendo in questo modo anche l’eventuale balzo dei prezzi.

Secondo questa tesi il greggio russo ‘sanzionato’ verrebbe reindirizzato a Cina e India, liberando quello mediorientale che verrebbe consegnato alle raffinerie in Europa. Per quanto riguarda i prodotti derivati, l’olio combustibile russo e i distillati potrebbero essere inviati in Sud America, Africa e Asia, mentre l’Europa potrebbe utilizzare i prodotti non ‘vietati’ di Stati Uniti, Cina, India e Medio Oriente.

Tuttavia, osservano molti analisti, ci sarebbero molti ostacoli per realizzare questo piano. Innanzi tutto aumenterebbero i costi di trasporto per produttori e consumatori, con le rotte di approvvigionamento che diventerebbero molto più lunghe, facendo aumentare la domanda di navi cisterna, più costose rispetto a spedire il greggio attraverso un oleodotto.

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© AGF

Petrolio, estrazione off shore

Altra criticità: le raffinerie sono settate per lavorare determinati tipologie di greggio. Cambiare quello russo e con quello mediorientale ridurrebbe l’efficienza, aumentando i costi e di conseguenza i prezzi. Il reindirizzamento dei flussi, spiega l’analista John Kemp in una articolo, interromperebbe rapporti commerciali ormai consolidati.

I venditori mediorientali hanno investito tempo nella costruzione di relazioni a lungo termine con raffinerie in Cina, India e nel resto dell’Asia.

L’Asia è percepita come un’area in crescita, mentre l’Europa viene considerata come un mercato in declino, soprattutto dopo le scelte nette di transizione green. I trader mediorientali si interrogano, sui motivi per i quali dovrebbero vendere i loro prodotti in Europa quando tra 10 anni si ritroverebbero nuovamente a contrattare con i paesi asiatici. Quale sarebbe la convenienza nel rompere contratti a lungo termine rinunciando ai redditizi mercati asiatici per rifornire le raffinerie europee in declino?

Ma lo stesso discorso si può fare per gli Stati Uniti. Le raffinerie del Nord America hanno mercati redditizi nell’America centrale e meridionale. L’Asia dal canto suo, potrebbe ritrovarsi a dover trattare un petrolio, quello russo, soggetto a sanzioni extraterritoriali. I flussi di greggio e di prodotti derivati formano, a livello globale, una fitta rete interconnessa.

Riprogrammare in maniera forzata le esportazioni russe tramite sanzioni implica modifiche a tutti gli altri rapporti tra fornitori e clienti. Una cosa non facile da portare avanti soprattutto dall’oggi al domani. Per motivi commerciali, la maggior parte degli esportatori fanno riferimento alle raffinerie geograficamente più vicine.

Finora, la Russia ha venduto il proprio petrolio all’Europa, l’importatore più vicino, anche se negli ultimi anni i flussi venivano lentamente riorientati verso l’Asia, il mercato in più rapida crescita, anche prima dell’invasione russa dell’Ucraina.

Per le stesse ragioni geografiche, l’Europa ha acquistato la maggior parte del greggio e dei prodotti dalla Russia e da altri paesi dell’ex Unione Sovietica.

Sempre secondo i dati di Bp, nel 2019, le esportazioni russe verso l’Europa hanno rappresentato oltre il 6% di tutto il greggio scambiato nel mondo e oltre l’8% di tutti i suoi prodotti scambiati a livello internazionale. Riprogrammare una quota così grande del commercio mondiale nell’arco di poche settimane o mesi creerebbe un enorme sconvolgimento.

Inoltre, nel passato gli embarghi sul petrolio hanno sempre provocato un aumento dei prezzi. Le tensioni sui mercati ci sono da circa un anno, da quando l’economia è uscita dalla pandemia da Covid ma con un’offerta inferiore alla domanda, scorte al di sotto della media degli ultimi cinque anni e poca capacità inutilizzata.

I precedenti embarghi imposti all’Iraq negli anni ’90 e all’Iran e al Venezuela nell’ultimo decennio sono stati compensati da forniture extra di altri produttori, riducendo il loro impatto complessivo sui prezzi. Al momento, però né l’Arabia Saudita né le aziende di shale oil statunitensi sembrano intenzionate ad aumentare la produzione per compensare la perdita di forniture russe e la Casa Bianca non ha finora raggiunto accordi per revocare le sanzioni contro Iran e Venezuela.

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