In Libano si vota in piena crisi economica

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Il Paese dei Cedri che si presenta a questa prova elettorale esce da anni devastanti: un default finanziario che ha letteralmente ridotto sul lastrico milioni di persone, una pandemia, con i suoi contraccolpi economici e sociali; una paralisi politica di oltre un anno e la più grande esplosione nella storia del Paese che nell’agosto 2020 ha sventrato una parte del porto.

Elezioni in Libano

AGI – Nella giornata di domenica poco più di quattro milioni di libanesi saranno chiamati alle urne per eleggere il nuovo Parlamento: in gioco ci sono 128 seggi, rigidamente divisi per confessioni. Il Paese dei Cedri che si presenta a questa prova elettorale esce da anni devastanti: un default finanziario che ha letteralmente tolto la luce al Paese, annientato la lira libanese e ridotto sul lastrico milioni di persone; una pandemia, con i suoi contraccolpi economici e sociali; una paralisi politica di oltre un anno e la più grande esplosione nella storia del Paese che nell’agosto 2020 ha sventrato una parte del porto e i quartieri limitrofi nella capitale.

Le speranze di cambiamento sono poche, e ne sono tutti abbastanza consapevoli: dai cittadini, inferociti con un sistema di privilegi e corruzione di cui beneficia la ‘casta’ al potere da decenni, agli Stati ‘sponsor’ internazionali, fino al Fondo monetario internazionale (Fmi), chiamato a erogare l’ennesimo finanziamento per salvare uno ‘Stato fallito’, condizionato però a delle profonde riforme che difficilmente vedranno la luce e verranno attuate.

Inizialmente indette per marzo, le elezioni sono state spostate al 15 maggio dal presidente Michel Aoun, il cui mandato termina a ottobre. A eleggere lui o un suo successore deve essere il Parlamento: trovare un accordo non è mai facile e più tempo ci mette, maggiore la permanenza al potere per l’attuale capo di Stato. I candidati in corsa sono 718, dei quali 284 sono membri dell’opposizione o candidati indipendenti. I libanesi della diaspora hanno già votato domenica scorsa: l’affluenza è stata vicina al 60%, come nel 2018, con la differenza però che stavolta si sono registrati in 225.000 contro i 90 mila di quattro anni fa.

In basse agli accordi di Taif che nel 1989 hanno messo fine alla guerra civile, la divisione delle più alte cariche dello Stato così come della rappresentanza parlamentare è rigidamente ripartita su uno schema confessionale: il presidente è un cristiano maronita, il premier un sunnita e agli sciiti spetta la presidenza del Parlamento, mentre i drusi indicano il capo di Stato maggiore dell’esercito.

Quanto al Parlamento, musulmani e cristiani hanno 64 seggi per ciascuno: all’interno dei due gruppi c’è un’ulteriore divisione confessionale che vede 27 seggi ai sunniti e 27 agli sciiti, otto ai drusi e due agli alawiti. All’interno del gruppo cristiano, 34 vanno ai maroniti e il resto a greco-ortodossi (14), greco-melchiti (8), apostolici armeni (5), un seggio per ciascuno a cattolici armeni e protestanti evangelici e un altro alle ulteriori minoranze cristiane.

L’attuale maggioranza parlamentare è in mano a Hezbollah e ai suoi alleati e gli analisti non si aspettano grosse variazioni nei numeri. Tuttavia, in uno scenario pressoché immobile da tempo, due sono le questioni aperte che potrebbero avere conseguenze sulla futura compagine di potere: la decisione del leader sunnita Sa’ad Hariri di non partecipare alle elezioni, con il suo invito a boicottare il voto, e il calo di popolarità del Movimento Patriottico Libero (Fpm) del presidente Aoun tra l’elettorato cristiano.

Il passo indietro di Hariri – figlio dell’ex premier Rafiq ucciso in un attentato, imputato a uomini del Partito di Dio filo-Iran, a Beirut il 14 febbraio 2005 – indebolisce la posizione sunnita in un momento in cui non c’è un erede designato (sia l’attuale premier Najib Mikati che l’ex premier Fouad Siniora si sono chiamati fuori dalle elezioni).

La frammentazione della rappresentanza sunnita è una forte preoccupazione per l’Arabia Saudita, ‘protettore’ della communità in un Paese da sempre terreno di battaglia nella rivalità tra i due grandi campioni regionali, Riad e Teheran. Il Regno wahabita da tempo è insofferente verso la leadership di Hariri e più in generale verso l’incapacità della dirigenza sunnita di contenere il potere di Hezbollah, con il quale ultimamemte Hariri aveva trovato un modus operandi per sbloccare le impasse, irritando però Riad.

In un recente editoriale sul quotidiano Al-Hayat, il leader sunnita è stato dipinto come un traditore che “si è gettato nelle braccia aperte dell’Iran”. Nonostante gli appelli di Siniora ad andare a votare, i sondaggi indicano che solo il 30% dell’elettorato sunnita ne ha l’intenzione. Il timore è che nel prossimo Parlamento trovino più spazio deputati sì sunniti ma disposti a sostenere Hezbollah e i suoi alleati.

Quanto all’elettorato cristiano, il Movimento patriottico libero di Aoun ha fortemente risentito delle ultime crisi, in particolare dopo le forti proteste di piazza nel 2019 alle quali non ha saputo rispondere in maniera efficace. Tra i principali rivali, ci sono le Forze libanesi e le Falangi (Kataeb), dalla cui – riuscita o meno – prova elettorale può dipendere l’equilibrio interno e il successivo schema per le presidenziali.

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