La Chiesa promette severità e vuole nuove regole

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Nelle dichiarazioni del presidente della Cei Zuppi un messaggio celato all’esecutivo in gestazione su migranti, Ucraina, Europa e divari tra i territori

di Nicola Graziani

AGI – In altri tempi sarebbero bastate le indicazioni della vigilia e, se non sufficienti, sarebbero state fatte bastare lo stesso. Questa volta no, vuoi perchè la circostanza non ha precedenti vuoi perché anche i vertici della Chiesa italiana non sono più quelli di prima. Fatto sta che, dopo un giorno di riflessione passato ad analizzare l’esito del voto e le sue concause, il cardinal Matteo Zuppi presidente della Cei ha ripreso e ribadito quello che era stato detto dalla Conferenza Episcopale a ridosso delle elezioni politiche.

Ma riprendendolo – e questo ha l’aria di essere il nocciolo della faccenda – ha espunto, da quelle lunghe pagine un po’ verbose, la sintesi dei passi importanti, dando loro nuova forza e nuovo impulso. Non si immagini che quello di Zuppi al nascituro governo italiano sia un altolà assimilabile ad una vecchia copertina di Famiglia Cristiana dedicata a Salvini. Al contrario: prevale nelle righe sottoscritte dal porporato il tono del dovuto rispetto dei ruoli e dei convincimenti.

Ma se il rispetto presuppone anche la chiarezza, altrimenti rispetto non sarebbe, ecco che un paio di punti, o anche più, sono sottolineati con una certa energia. Per andare ancor più d’accordo, nel prossimo futuro.

Zuppi scrive citando di sguincio la Cei, se non per ricordare che lui ne è presidente, e il suo Consiglio Permanente, autore del documento del venerdì preelettorale. Ad esso si rifà, per l’appunto, ma quasi scavalcandolo: sicuramente rendendolo più incisivo. Avevamo “sottolineato quanto sia importante essere partecipi del futuro del Paese”, esordisce, “Purtroppo, dobbiamo registrare con preoccupazione il crescente astensionismo, che ha caratterizzato questa tornata elettorale, raggiungendo livelli mai visti in passato”. E’ il “sintomo di un disagio che non può essere archiviato con superficialità e che deve invece essere ascoltato”.

Nemmeno il vincitore ha trionfato, insomma: il problema è ormai incistato nelle ghiandole linfatiche della democrazia ed è la radice dei possibili mali presenti e futuri. A non essere andati a votare sono soprattutto “i più deboli e i meno garantiti”: sia data loro risposta, è un diritto (loro) e un dovere (degli eletti). Ne consegue non tanto un richiamo generico alla ricerca del bene comune, formula esauriente ma anche un pò adatta a tutte le stagioni, quanto piuttosto un elenco lungo e dettagliato sulle cose da fare.

Eccole, enumerate con meticolosa cura persino un po’ didascalica, come a ricordare non solo al governo prossimo venturo, ma a tutta la classe politica che delle vaghe promesse sono lastricate, come i buoni propositi, le vie che conducono all’inferno.

Sono, le emergenze stringenti, “le povertà in aumento costante, l’inverno demografico, la protezione degli anziani, i divari tra i territori, la transizione ecologica e la crisi energetica, la difesa dei posti di lavoro, soprattutto per i giovani, l’accoglienza, la tutela, la promozione e l’integrazione dei migranti, il superamento delle lungaggini burocratiche, le riforme dell’espressione democratica dello Stato e della legge elettorale”.

E poi c’è anche la guerra in Ucraina, e poi non ci si dimentichi la necessaria “sintonia con l’Europa”. E poi ancora c’è una notarella a piè di pagina: “La Chiesa, come già ribadito, continuerà a indicare, con severità se occorre, il bene comune e non l’interesse personale, la difesa dei diritti inviolabili della persona e della comunità”. Non c’è bisogno di un esegeta per leggere in controluce che il messaggio all’esecutivo in gestazione è chiaro (migranti, Ucraina, Europa e divari tra i territori) come lo è quello a chi non avrà responsabilità di governo, ma dovrà comunque legiferare (lavoro, ambiente).

Certo, sono i primi quelli a cui per primi ci si deve rivolgere, ma non vuol dire. Certe sfide sono comuni. La novità, comunque, è anche un’altra e consiste nel richiamo alla legge elettorale, indicata chiaramente anche se indirettamente come una delle principali cause dello scollamento tra politica e società, tra istituzioni democratiche e pubblica opinione. Insomma, la Chiesa non dice più chi votare (lo ha fatto fin troppo, anche in decenni non lontani), ma esige un gioco democratico cui si partecipi secondo regole che non escludano nessuno, a livello di elettorato attivo ma anche passivo.

Forte è l’esigenza di nuove forme di rappresentanza, non si creda che una vittoria elettorale (negli ultimi tempi di trionfi effimeri ve ne sono stati fin troppi) cancelli il fallimento di un terzo degli elettori che resta a casa. Per questo si fa ancora più forte il richiamo alla “severità” con cui si promette di vigilare. Una Chiesa non attiva protagonista su palcoscenici che non le competono, ma attenta sentinella, evangelicamente, in attesa dell’aurora. Il collateralismo è finito, andate in pace.

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