Da Sciences Po al duello con Meloni, si chiude l’era Letta

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Dopo due anni alla guida del partito cede oggi il testimone. E lo fa non senza un velo di amarezza, ma c’è “bisogno di unità e di una leadership che si occupi più di quanto accade fuori dal partito che non dentro il partito”, ha spiegato

© Francesco Fotia / AGF

AGI – Chiamato alla guida del Partito Democratico due anni fa, quando guidava ancora la prestigiosa Sciences Po di Parigi e Nicola Zingaretti aveva appena lasciato il Nazareno con il suo j’accuse alle correnti, Enrico Letta passa oggi il testimone. Lo fa non senza un velo di amarezza.

“Questo partito ha bisogno di unità e di una leadership che si occupa più di quanto accade fuori dal partito che non dentro il partito”, dice dopo aver deposto la scheda del circolo Pd di Testaccio, a poche decine di metri dalla sua casa romana, “ci sono stati mesi in cui anche io personalmente sono stato oggetto di mille ironie e mille critiche. Io credo che sia stato un metodo giusto perchè oggi chi viene eletto o eletta avrà una forte legittimazione”, aggiunge.

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© Francesco Fotia / AGF

Il metodo è quello scelto per il percorso congressuale. Un metodo unitario, in cui il segretario ha cercato in maniera spasmodica la convergenza di tutte le sensibilità presenti nel partito, prima fissando le primarie al 12 marzo, poi anticipandole al 19 febbraio, su pressione di chi riteneva il congresso troppo lungo, alla fine spostandole in avanti, al 26 febbraio per venire incontro ai territori e alle mozioni che se ne sono fatte portavoce, sui problemi organizzativi che avrebbe comportato tenere le primarie troppo a ridosso delle elezioni regionali. Un tira e molla con cui Letta ha dovuto fare i conti più volte nel corso della sua gestione del Nazareno

Politicamente parlando, l’inizio dell’anno per Enrico Letta è coinciso con la difficile partita del Quirinale. In campo, all’inizio, sembrava esserci il solo nome dell’allora presidente del Consiglio, Mario Draghi. Ma nel giro di una settimana, come spesso accade, l’ex governatore della Bce da papa si è ritrovato cardinale e nei conciliaboli tra i leader della larghissima maggioranza che sosteneva il governo cominciavano ad emergere quelle spaccature e quegli assi trasversali alle forze di centrodestra e centrosinistra che sarebbero risultati fatali all’esecutivo pochi mesi dopo. Si pensi, tra le altre cose, ai giochi di sponda fra Luigi Di Maio e il Pd, da una parte, e fra Giuseppe Conte e Matteo Salvini, dall’altra.

Emerge il nome di Pierferdinando Casini, sul quale punta Matteo Renzi e che raccoglie consensi da una parte e dall’altra. Sembra fatta, ma arriva a sorpresa il segretario dem, Enrico Letta, a chiedere ai grandi elettori Pd di “assecondare la saggezza del Parlamento”. Saggezza che, in quelle ore indicava, voto dopo voto, il nome di Mattarella. La rielezione del Capo dello Stato sembra mettere il vento in poppa ai dem, attesi un paio di mesi dopo, a un test elettorale importante in quasi mille comuni italiani. Ma il 24 febbraio arriva la guerra in Ucraina a rimettere tutto in discussione. La posizione del Pd è immediatamente quella dell’intransigenza nei confronti di Mosca.

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© Alessandro Serrano’ / AGF

Il 21 giugno, Luigi Di Maio lascia il Movimento 5 Stelle per fondare Insieme per l’Italia. Enrico Letta, dallo studio di Porta a Porta, si dice niente affatto sorpreso: “Noi abbiamo una certa esperienza di scissioni. Il Pd ha una storia di scissioni molto marcata”, ricorda con una buona dose di autoironia il segretario dem. E aggiunge: “Quello che succederà lo capiremo nelle prossime settimane. Io sono massimamente rispettoso dei travagli delle altre forze politiche, spero soltanto che tutto questo non vada a vantaggio del centrodestra, che è già avvantaggiato domenica ai ballottaggi e alle prossime elezioni. Spero che ognuno giochi la partita essendo il più efficace possibile”. La speranza del segretario che, proprio in quei giorni vede levitare il consenso del Pd, risulta mal riposta. A un mese di distanza dallo strappo di Di Maio, Conte innesca la crisi di governo sul termovalorizzatore di Roma annunciato dal sindaco Roberto Gualtieri e inserito nel decreto aiuti del governo. Si tratta pero’, con ogni evidenza, di un mero ‘casus belli’, perchè i rapporti fra leader M5s e premier sono ai minimi da tempo. Conte, ancor prima dello strappo in Senato, invia al presidente del Consiglio un memorandum in cui segnala nove punti irrinunciabili dell’azione di governo per il M5s. Non c’è traccia del Termovalorizzatore. Letta cerca di mediare, rimarca il lavoro dal Pd, con Andrea Orlando, per aprire un tavolo con i sindacati sul salario minimo, norma compresa nei novi punti di Conte. Il 21 giugno, tuttavia, al senato si consuma l’ultimo atto del governo Draghi. Letta accorre a palazzo Madama, dove è presente anche il ministro Dario Franceschini.

Le trattative con M5s sono fittissime. Il ministro dei Rapporti con il Parlamento, Federico d’Incà, fa da spola tra gli uffici del M5s e quelli del Pd. L’intervento del leghista Romeo riaccende qualche esile speranza: dem e governisti M5s sperano che Conte approfitti della scelta di Salvini e Berlusconi di chiudere all’ipotesi di un Draghi 2 per rientrare nelle fila del governo. Invece Conte corre dritto per la sua strada e Draghi si dimette. Il Pd, a questo punto, è chiamato a scegliere. E il segretario Enrico Letta lo fa immediatamente. Quella con Conte è “una rottura irreversibile”. Si apre, di fatto, una campagna elettorale che il segretario Letta imposta sul duello fra lui e Giorgia Meloni, data come favorita per Palazzo Chigi. Una dicotomia che i manifesti dem ribadiscono anche nei contenuti: “Scegli” è il claim della campagna, con le alternative “Con Putin/Con l’Europa”, “Più condoni/Meno tasse”, “Combustibili fossili/Energie”. Ma è sulle alleanze che il Pd perde le elezioni. Conte decide di presentarsi da solo, consapevole che facendosi chiudere nel recinto dell’alleanza potrebbe forse fermare l’avanzata delle destre, ma favorendo il Pd a scapito dei voti del M5s. E Letta deve fare a meno anche di Calenda che, nel giro d 24 ore, passa dall’accordo siglato con il Pd e sigillato con un bacio sulla guancia al segretario dem, allo strappo per correre con il cosiddetto Terzo Polo, in tandem con Renzi.

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© Alessandro Serrano’ / AGF

Alla fine, il Pd con il campo ristretto della sua lista “Italia democratica e progressista”, nella quale sono presenti anche Articolo Uno e Demos, si attesta 19,1 per cento, sotto la soglia psicologica del 20 per cento che avrebbe consentito di parlare di “non sconfitta”. Letta è costretto a una presa di posizione. Non si dimette, ma annuncia che guiderà il Pd solo fino all’elezione della nuova segreteria. Il congresso puo’ partire, seppur tra mille incognite. In campo c’è il solo Stefano Bonaccini, sostenuto dall’ala liberal del Pd, con Base Riformista di Lorenzo Guerini in prima linea. Si aggiungono poi sindaci come Dario Nardella e Antonio Decaro.

La grande attesa è Elly Schlein, paladina dei diritti salita agli onori delle cronache come “anti Meloni” per il discorso di fuoco tenuto il 23 settembre a Piazza del Popolo. È in questo contesto che piomba come un macigno il caso Qatargate. Quando l’inchiesta coinvolge l’europarlamentare Pd Andrea Cozzolino, Letta riunisce d’urgenza la commissione di garanzia e sospende l’eurodeputato. Sarebbero stati due anni il 14 marzo. Letta non tornerà a Sciences Po. Nel mezzo di questi due anni, il segretario ha vinto le suppletive nel collegio di Siena. Siederà in Parlamento e assicura di mettersi a disposizione: “Sarò li’ ad aiutare discretamente dal mio posto, senza sgomitare. Esco di scena molto contento di questa grande giornata di partecipazione, di questa festa della democrazia che è quello che per cui è nato il Partito democratico”.

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