I Senatori durante il fascismo: scudo della Corona

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Per non “fascistizzare” il Senato, nel quale erano e ancora vennero inseriti ex repubblicani, socialisti, democratici e antimussoliniani notori, tra il 1934 e ii 1939 non avvenne alcuna nomina. Ripresero nel marzo 1939 quando ormai (a leggi razziali ormai imperversanti) era in corso lo scontro tra i fascisti repubblicani e la Corona.

Mussolini al Senato del Regno d’ Italia durante una seduta politica

Cancellare il Senato?

Nel 1912 i riformisti vennero espulsi dal Partito socialista perché si erano congratulati con Vittorio Emanuele III, scampato di misura all’attentatore Antonio D’Alba. Conservare il Senato qual era assunse il carattere di difesa delle istituzioni, mentre eventi esterni minacciavano di precipitare l’Italia nel caos. Lo si vide con la “settimana rossa” del giugno 1914. Il 20-21 maggio 1915 il Parlamento approvò la richiesta di pieni poteri avanzata il 17 dal governo Salandra “in caso di guerra”. Con l’ingresso nel conflitto le Camere persero il controllo della politica estera e militare, cioè del Paese. Durante le sedute in “comitato segreto” sulla condotta della guerra Alfredo Frassati, proprietario e direttore della “Stampa” di Torino e senatore dal 24 novembre 1913, riferì a Giolitti, chiuso nella solitudine di villa Plochiù a Cavour, che nella Camera Alta non era “penetrata nessuna delle ansie che agitano tutti i petti. Mi pare ogni giorno di più che i socialisti hanno ragione di scrivere come paragrafo primo del loro programma: abolizione del Senato. Nel dopoguerra le sorti del Senato parvero precipitare. Chi non era per la sua eliminazione, quanto meno ne propugnava l’elettività. Per l’estrema sinistra il Parlamento andava sostituito con un’assemblea di commissari politici, sul modello dei soviet. Perloro il re e Casa di Savoia andavano spazzati via: eliminazione fisica o esilio. Canti popolari, vignette satiriche, libelli propagandistici alimentavano la visione del tutto deformata della monarchia: clan di parassiti e vecchie cariatidi che sguazzavano nel lusso “affamando il popolo”. I repubblicani erano fautori del monocameralismo. Il Partito popolare italiano, fondato il 18 gennaio 1919 su impulso di don Luigi Sturzo (“prete intrigante”, secondo Giolitti), al decimo punto del programma propose la “riforma elettorale politica con il collegio plurinominale a larga base con rappresentanza proporzionale. Voto femminile, Senato elettivo con prevalente rappresentanza dei corpi della nazione (corpi accademici, comuni, province, classi organizzate) (CdA)”. Il movimento dei fasci di combattimento abborracciato da Benito Mussolini con apporti disparati e contraddittori a sua volta propose di conferire “alle corporazioni professionali ed economiche diritto di eleggere i corpi dei Consigli Tecnici Nazionali”, sostitutivi delle Camere: un modello non troppo lontano dai soviet.

Anche l’unica costituzione varata nel dopoguerra, la Carta del Carnaro, abbozzata dall’anarco-sindacalista Alceste de Ambris e perfezionata da Gabriele d’Annunzio per dar veste alla Reggenza di Fiume (agosto-settembre 1920), ignorò un consesso che in seconda lettura filtrasse la legislazione attraverso la saggezza degli anziani. Il “popolo” era chiamato a esprimersi direttamente in un clima di mistica unione, propiziata dalla trasformazione della Città in sacra rappresentazione perpetua. La canzone più in voga inneggiava alla Giovinezza, primavera di bellezza… Nata come canto goliardico, con debite modifiche fu adottata dagli Arditi e poi dalle “squadre” fasciste. Nel discorso d’insediamento alla guida del Grande Oriente d’Italia persino il cinquantenne Domizio Torrigiani nel giugno 1919 si presentò quale espressione della “Giovinezza”.

Incalzato da avversari e nemici, il Senato si arroccò nella difesa della propria tradizione. Nel 1918-1919 se ne occupò Tommaso Tittoni in articoli sui Conflitti tra le due Camere in Inghilterra e la riforma della Camera dei Lords. Alla morte del venerando Giuseppe Manfredi il 18 novembre il re nominò presidente il conte Adeodato Bonasi (San Felice sul Panaro, Modena, 1838 – Roma, 1920), ma con l’inaugurazione della prima legislatura postbellica Tittoni fu eletto presidente.

Tra i nuovi patres si contarono gli artefici della vittoria: Armando Diaz (24 febbraio 1918), Enrico Caviglia, l’industriale Ettore Conti (22 febbraio 1919), i generali Pietro Badoglio, Guglielmo Pecori Giraldi, l’ammiraglio Umberto Cagni di Bu Meliana, cui seguirono Alberico Albricci, l’industriale Dante Ferraris, esponente dell’influente Associazione torinese Meccanici metallurgici e affini e Carlo Sforza. Nell’ottobre 1919, in vista delle imminenti elezioni col sistema proporzionale, il governo presieduto da Francesco Saverio Nitti varò 59 nuove nomine: un ampio ventaglio di personalità eminenti: Ernesto Artom, il clinico Leonardo Bianchi, l’ebreo livornese e massone Dario Cassuto, Giovanni Ciraolo, commissario della Croce rossa italiana e presidente del Rito simbolico italiano, che fece pervenire a d’Annunzio aiuti per due milioni di lire dell’epoca, Marco di Saluzzo, Pietro Ginori Conti, Ludovico Fulci, Gaetano Mosca, Nino Tamassia. In Senato entrarono due economisti di fama, Achille Loria (studiato dallo storico Bruno di Porto, recentemente defunto) e il quarantaseienne Luigi Einaudi che, narrò poi, si ritrovò con i capelli neri in mezzo a un’assemblea di patrioti incanutiti e avvertì appieno quale pegno costituisse il laticlavio. Il Senato bilanciava l’irruzione alla Camera di duecentocinquanta deputati socialisti e popolari e i giovanissimi esponenti della “trincerocrazia”. Altrettanto fece Giolitti durante il suo quinto ministero e in vista delle sfortunate elezioni del maggio 1921. Su suggerimento di Benedetto Croce, propose senatore il grecista Roberto Ghiglianovitch, benché avvertito che era suo acre e spesso immotivato nemico. Lo constatò quando ne subì in aula un attacco violentissimo e, sportosi a domandare chi mai fosse quell’esagitato senatore, da Croce si sentì rispondere: “È quel professore di greco che io ho sulla coscienza di averti fatto nominare”.

Dopo Paolo Boselli, Luigi Luzzatti, Giuseppe Marcora, tutti statisti i cui nomi riecheggiavano nelle aule parlamentai dagl’inizi del Regno unitario, nel giugno 1921 fu la volta di Alfredo Baccelli, Agostino Berenini, Alfredo Lusignoli (prefetto di Milano), Cesare Nava, Edoardo Pantano, Olindo Malagodi… In Senato v’era dunque posto per tutti: socialisti, ex repubblicani, cattolici e israeliti, purché ponessero l’Italia al di sopra di ogni particolarismo. Tra le dimissioni dell’ultimo governo  Giolitti (luglio 1921) e l’insediamento di Mussolini alla presidenza del Consiglio (31 ottobre 1922) si contarono altri sedici laticlavi,una sorta di velario dell’Italia liberale. Ne beneficiarono Pietro Tomasi della Torretta dei principi di Lampedusa, unico senatore voluto dal socialriformista e poi democratico Ivanoe Bonomi, rieletto in una lista comprendente Roberto Farinacci, “il più fascista”. Il 19 ottobre 1922 il re nominò senatori il duca Giovanni Battista Borea d’Olmo, il cui antenato, Tomaso, ispirò il Barone rampante di Italo Calvino (come narrato da Luca Fucini), Giuseppe Volpi di Misurata, il professore Vittorio Puntoni, grecista insigne e padre del suo futuro aiutante di campo, generale Paolo, il cattolico conciliatorista marchese Filippo Crispolti, il massone Ettore Pais, romanista insigne, e Camillo Peano, presidente della Corte dei conti pochi giorni prima dell’avvento di Mussolini e in carica sino al 31 dicembre 1928, quando apprese dai giornali di essersi dimesso  per far posto a un fiduciario del duce.

Le mire del fascismo contro il Senato

Asceso alla presidenza di un governo di coalizione statutaria, Mussolini non puntò alla fascistizzazione del Senato. Il 31 ottobre 1922, quando formò il governo, i senatori iscritti al PNF  erano 2 su circa 400, cioè lo 0,5%. Il 27 novembre 1922 la Camera Alta lo approvò con 187 voti contro 19.

I candidati al laticlavio, proposti dal governo, passavano al vaglio severo del re. Dalla memoria ferrea, curioso d’ogni aneddoto, Vittorio Emanuele III, apparentemente arido, in realtà onniveggente, sapeva tutto dei “personaggi pubblici”. Dopo la designazione spettava all’Assemblea ratificare la nomina. Nei quasi sei anni tra il 5 novembre 1922, quando fu nominato Giovanni Gentile, e il 20 maggio 1928, tre giorni dopo la legge che conferì al Gran consiglio del fascismo la composizione della Camera, i nuovi senatori furono appena 86: pochi se confrontati al cambio politico in atto. Il 1° marzo 1923 ebbe luogo la prima “infornata”, aperta dal presidente della FIATdi Torino, Giovanni Agnelli. Lo seguirono lo scultore Leonardo Bistolfi, massone notorio e influentissimo sulla strategia della “raffigurazione della patria”, il nazionalista Enrico Corradini, l’economista Maffeo Pantaleoni, l’antico ministro giolittiano, poi giolittofago e “fratello” Ferdinando Martini, primo ideatore di una Enciclopedia italiana, il generale e quadrumviro Emilio De Bono il 15 ottobre 1925 raggiunto in Senato da Cesare Maria De Vecchi, creato conte di Val Cismon. Poiché non aveva né tre legislature, né cariche accademiche, militari o altri titoli (censo compreso), questi fu nominato ministro di Stato e, dopo un iter travagliato, ottenne il laticlavio per quella categoria.

I rapporti tra il duce del fascismo e la Camera Alta furono a lungo assai freddi. Nel 1924-1925 Mussolini fece ripetutamente i conti con gli umori del Senato. Nel 1924 si verificò un incidente abbastanza clamoroso. Il 20 settembre lo scrittore Ugo Ojetti, autore tra altro del Proclama della Vittoria firmato da Diaz, fu nominato senatore per le categorie 20^ e 21^ (illustrazioni della patria e alto censo). Il 23 novembre l’apposita commissione di verifica lo escluse dalla 20^. Ojetti s’affrettò a documentare d’essere pienamente in regola per la 21^. Era tra i giornalisti meglio pagati d’Italia. Però fu contrariato dal mancato riconoscimento di avere “bene meritato della patria”. La commissione di convalida dei titoli oppose identica riserva alla nomina del poeta napoletano Salvatore Di Giacomo, che rimase escluso dalla Camera Alta perché, a differenza del conterraneo suo e caldo estimatore Benedetto Croce, nominato senatore per la 21^ categoria, zeppa di industriali, banchieri, proprietari fondiari e affaristi, il poeta viveva da poeta e non aveva il reddito richiesto. Ojetti ebbe l’astuzia di farne una questione d’orgoglio: non per sé ma per solidarietà con Di Giacomo, come il 5 dicembre 1924 scrisse al presidente Tommaso Tittoni: “Delle ragioni della mia rinunzia devo pur dire all’Eccellenza Vostra la più grave. Della categoria 20^ è insieme a me rimasto escluso Salvatore Di Giacomo, ma purtroppo egli non ha il modesto censo sufficiente per essere come me ammesso nella categoria 21^. Da questo confronto con quel poeta purissimo, io scrittore sarei per sempre addolorato e umiliato”. Una furba lezione di stile.

L’anno seguente la tensione tra il presidente del Consiglio e la Camera Alta si manifestò in molteplici modi: per esempio con le obiezioni opposte ai “titoli” in primo tempo presentati da De Vecchi a suffragio della nomina. In Senato incontrò poi l’astensione (che in Senato valeva per voto contrario) di Croce e altri nella votazione sulla legge “contro la Massoneria”, da Mussolini in persona presentata come “la più fascista”. Nessun pater, però, chiese la verifica del numero legale: uno strumento procedurale che avrebbe potuto costringere almeno al rinvio della votazione stessa, con smacco del governo. Perciò, proprio a cavallo di quel voto (20 novembre 1925) il Gran Consiglio del fascismo, che all’epoca era nient’altro che un consesso ‘privato’, progettò una riforma del Senato, proprio mentre vi entrava il principe ereditario Umberto di Piemonte, giunto alla maggiore età (14 novembre 1925). Presenti e oranti parecchi monarchici, il Gran consiglio ipotizzò tre vie: lasciare immutato il Senato, salvo aumentare le categorie dalle quali trarne membri; formare entrambe le Camere con rappresentanti delle “corporazioni”; inserire tali rappresentanze nel Senato. Scartate le due prime proposte, macchinose e contraddittorie, fu accolta la terza, in attesa che venisse formulata in versione più chiara. Nel frattempo “gli attuali membri del Senato (avrebbero mantenuto) la loro carica e dignità”. Il Gran consiglio, comunque, concluse che il numero dei patres sarebbe rimasto, qual era, illimitato. I senatori sarebbero stati divisi in due classi: quelli di nomina regia e vitalizi; e quelli espressi dalle corporazioni, con mandato novennale, a loro volta comunque nominati dal re ed equamente ripartiti tra esponenti dei lavoratori e dei datori di lavoro. Con modeste varianti, era la “riforma Luzzatti”, affossata dal Re e da Giolitti nel 1911. Poiché, però, le corporazioni erano ancora tutte da inventare, a differenza della precedente che già aveva avuto il pregio della confusione, la riforma prospettata dal Gran Consiglio rimase sulla carta.

Aldo A.Mola

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