Il direttore di San Vittore: “Questo carcere scoppia di giovani”

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La vita di frontiera di Giacinto Siciliano che abita in una casa sopra alle celle: i 250 ragazzi sotto i 25 anni, il telefono sempre acceso con la paura dei suicidi, gli incontri con detenuti “che ti chiedi perché sono qui” ma anche la speranza che ogni mattina lo motiva a provare a costruire un futuro per chi è dentro

di Manuela D’Alessandro

© @manuela d’alessandro – Giacinto Siciliano nel suo ufficio a San Vittore

AGI – Nell’ufficio di Giacinto Siciliano c’è una grande clessidra e poi altre più piccole che evocano le attese di chi, a pochi metri da qui, sta in cella. L’altro particolare che colpisce nella stanza affacciata sul campo da calcio degli agenti è l’immagine di un’impronta appesa al muro. “E’ quella che mi piacerebbe lasciare. So che in un carcere così complesso andrebbe già bene limitare i danni ma io lavoro per costruire”.

E adesso il direttore del carcere di San Vittore ha in mente sopra ogni cosa l’impegno di tracciare un orizzonte possibile per i giovani reclusi, mai così tanti. È un pensiero che, racconta all’AGI, “genera una sofferenza” in lui e in chi lavora o regala il proprio tempo libero dentro a queste mura erette nel 1872.

“Abbiamo oltre 250 ragazzi sotto i 25 anni su 850 detenuti, è un numero che sta crescendo tantissimo. Il disagio giovanile sta diventando talmente grande che il sistema non è più in grado di reggerlo e tocca al carcere farsene carico. La maggior parte sono stranieri ma ci sono anche italiani, a volte di seconda generazione”.

Il vero nodo è come far scattare una scintilla in loro. “Le abbiamo provate tutte negli ultimi due anni, senza risultati. Li tieni in cella e litigano, li fai uscire e continuano a litigare. Provi delle attività di intrattenimento o con la scuola ma non bastano. Il carcere potenzia  situazioni che già esistono. Stiamo cercando di agganciarli con altri progetti perché il problema non è ricondurli a un ordine solo imposto ma che venga vissuto come tale. Se non costruiamo il loro futuro tutto quello che facciamo qui dentro è inutile”.

Il pensiero di Siciliano è che in questa fase storica il carcere debba rimediare a un’incapacità del mondo fuori di affrontare il disagio. “San Vittore rappresenta uno spaccato allarmante di ciò che accade nella città, di tutte quelle situazioni che non si riescono a gestire e sfociano in reati perché non si è riusciti ad agganciare o a prevenire il malessere. E l’unico posto dove paradossalmente possono essere gestite è il carcere che sta diventando la risposta automatica alla marginalità. Le persone che arrivano hanno per lo più problemi di tossicodipendenza o dipendenza dai farmaci. Alcuni sniffano l’intonaco, altri si fumano qualsiasi cosa o si bevono il gel igienizzante perché contiene alcol”.

Anche i percorsi migratori sono cambiati: “Qualche anno fa i percorsi erano quelli dei campi libici, oggi sono soprattutto le rotte balcaniche per certi versi ancora più faticose perché sono lunghe e queste persone, per attraversarle, sono imbottite di psicofarmaci”.

Nei giorni scorsi il sottosegretario alla Giustizia Andrea Del Mastro ha auspicato che i tossicomani vadano nelle comunità con l’obbiettivo di svuotare le carceri. A San Vittore i tossici ‘certificati’ sono 450. “Il carcere non è il posto idoneo alla loro gestione. Può essere una delle risposte al disagio ma noi oggi ci stiamo occupando di tanti detenuti che avrebbero bisogno di altro, di cure e interventi specialistici che non sempre le singole strutture sono in grado di assicurare”.

Il ragionamento riguarda “per esempio i pazienti psichiatrici che restano in carcere perché il sistema delle Rems (residenza sanitarie per autori di reato incapaci di intendere e volere, ndr)  non funziona e le comunità senza documenti o residenza non  li prendono per problemi legati al rimborso delle rette. I pochi psichiatri che ci sono si dividono tra qui, Opera e Bollate e fanno miracoli. Il carcere è l’unico posto dove sei obbligato a prendere le persone e a gestirle col grande limite che dentro non è scontato che ci sia una struttura adeguata alla cura. Io non credo che sia il posto giusto per questi detenuti ma se lo deve essere ci vorrebbe un investimento serio”.
Il direttore di San Vittore che ci abita proprio sopra tiene sempre il telefono acceso. Nell’ultimo anno per tre volte lo hanno chiamato per dei suicidi. Traccia a penna un foglio di carta con lo schema delle celle e i possibili movimenti dei reclusi.

“Le persone che si sono tolte vita erano tutte seguite da diversi operatori. Ti poni tante domande. C’è tanta attenzione e impegno ma evidentemente non basta. Avremmo potuto o dovuto controllare di più? Non è solo un problema di controllo. Una considerazione è che non puoi in ogni caso limitarti a controllare una persona a tutte le ore per un lungo periodo perché farla stare bene significa anche darle libertà e costruire con lei un progetto di vita che non sempre è facile da ipotizzare e realizzare. Spesso ci sono situazioni di sofferenza e carenza pregresse che in carcere non è facile affrontare e che presuppongono un progetto sull’esterno”.

Ci sono alcuni detenuti che lo colpiscono più di altri, oltre ai giovani. “A volte cammini e vedi persone che ti chiedi perché stiano qui. Mi è capitato di pensarlo con un ragazzo con la sindrome di down, poi per fortuna scarcerato dopo un giorno, oppure quando vedo persone con un vissuto di grande povertà e marginalità. A volte il reato non è il problema”.

Un direttore di carcere si sveglia sempre con la speranza? “Tante mattine mi alzo con la stanchezza che non incide però sulla speranza. La cosa che mi stanca è che vorrei cambiare molto di più e diventa frustrante se non lo posso fare per limitazione e vincoli che il sistema comporta. Però forse qualcosa, grazie anche a Milano che è sempre disponibile ad aiutare il suo carcere, lo stiamo costruendo”.

Sulla parete oltre all’impronta ci sono due ritratti di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone firmati da ex detenuti di lungo corso per reati di mafia in un altro carcere di cui è stato direttore.

Far scorrere la clessidra, lasciare un’impronta, vederla in un disegno.

 

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