Le parole per capire la guerra dei chip

Economia & Finanza

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Alleanze, sfere d’influenza,“condizioni inaccettabili”, “rinascita”, autarchia e patriottismo. Stati Uniti, Paesi Bassi e Giappone da una parte. La Cina dall’altra. In mezzo, i dubbi di Taiwan e la “morte della globalizzazione”

di Paolo Fiore

© Lino Mirgeler / DPA / dpa Picture-Alliance via AFP

– Microchip, chip

AGI – “La globalizzazione è morta, almeno nel mercato dei chip”. Parole di chi, sul tema, qualcosa ne sa: Morris Chang, fondatore di Tsmc, il gruppo taiwanese leader globale dei semiconduttori. Parole dette e ripetute. La prima volta lo scorso dicembre, in Arizona, dove il presidente Usa Joe Biden lo ha ricevuto per celebrare i mega-investimenti di Tsmc negli Stati Uniti. La seconda il 16 marzo, durante il Semiconductor Forum, a Taipei.

Per anni, le filiere tecnologiche si sono aggrovigliate. Componenti progettati negli Stati Uniti, prodotti e assemblati (non solo) in Cina, da imprese (soprattutto) taiwanesi. Adesso, Pechino e Washington stanno provando sbrogliare i fili. Due fili, i propri. Si accelera verso una biforcazione, per nulla semplice. Perché tirare un capo rischia di creare nuovi nodi.

La triplice alleanza

Il 31 marzo, il Giappone ha annunciato restrizioni all’export dei semiconduttori per contribuire “alla stabilità internazionale”. Il ministro del Commercio Yasutoshi Nishimura non ha citato la Cina. Non era necessario. Per vendere all’estero, i produttori avranno bisogno – a partire da luglio – di una licenza specifica. Il che vuol dire un controllo governativo sui componenti che si potranno esportare e dove.

Il Giappone si accoda così agli Stati Uniti e ai Paesi Bassi, con i quali, a gennaio, ha firmato un’intesa per tagliare i rifornimenti di semiconduttori alla Cina. Washington ha già introdotto restrizioni simili. L’origine del coinvolgimento giapponese è subito comprensibile: secondo l’Observatory of Economic Complexity, solo Taiwan esporta verso la Cina più semiconduttori. Ma i Paesi Bassi? Sono la sede di Asml, la società tecnologica europea con la capitalizzazione più elevata, leader nelle macchine per la produzione di chip e monopolista per quelle basate sulla tecnologia più evoluta, la Euv (Extreme ultraviolet lithography).

Il governo arancione si è mosso il 10 marzo. Sempre senza citare la Cina. Il provvedimento è di carattere nazionale, ma il vicepresidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, ha confermato che sono in corso valutazione sulla “possibilità di estenderlo a livello Ue”. In una nota, Asml ha affermato che le restrizioni non dovrebbe pesare sul bilancio 2023. Perché c’è ancora tempo prima che entrino in vigore. E poi perché la società non ha mai fornito alla Cina il suo segmento Euv.

Resta da capire cosa ne sarà delle esportazioni di macchine per la produzione di chip (relativamente) meno evoluti (Duv, deep ultraviolet lithography), venduti in Cina anche a potenziali alleati commerciali, come le società sudcoreane Samsung ed SK Hynik.

Qui Cina

Pechino ha risposto ai provvedimenti giapponese e olandese. Il ministero degli Esteri ha accusato gli Stati Uniti di fare tutto per “salvaguardare la propria egemonia” e parlato di “politicizzazione delle questioni economiche, commerciali e tecnologiche”, che finiranno per “danneggiare” la produzione globale. Eric Xu, presidente di turno di Huawei, ha usato toni diversi. Ha definito le sanzioni uno stimolo per “la rinascita” della filiera dei semiconduttori cinesi.

La Cina, però, oggi dipende totalmente dai chip di Taiwan (prima di tutto), Giappone e Sud Corea. L’autarchia è ancora lontanissima. Ammesso che sia possibile. Ma, in un mondo con due filiere slegate, la direzione è quella. Per spingere i semiconduttori fatti in casa, il governo sarebbe pronto a investire 143 miliardi di dollari, il triplo delle risorse messe in campo dall’avversario nel suo Chips Act.

Qui Stati Uniti

Il Chips Act è il provvedimento, firmato lo scorso agosto, con il quale Biden sta provando a supportare la produzione domestica, anche attraverso il coinvolgimento di partner esteri in chiave anti-cinese. Ma le grandi manovre erano iniziate molto prima. Sotto l’amministrazione Trump, Tsmc ha firmato l’accordo per costruire il suo primo impianto negli Stati Uniti, in Arizona. Valore dell’investimento: 12 miliardi di dollari. Biden ha fatto il bis, annunciando – lo scorso dicembre, proprio durante la visita di Morris Chang negli Stati Uniti – i lavori per un secondo stabilimento, sempre in Arizona. Produrrà chip a 3 nanometri, cioè funzionali alle applicazioni più evolute. Valore dell’investimento: 40 miliardi di dollari. Cui si aggiungono gli impegni di società Usa per produrre semiconduttori in patria: 100 miliardi di dollari da parte di Micron, 20 miliardi da Ibm e altrettanti da Intel. “Questi investimenti ci stanno aiutando a costruire e rafforzare la supply chain”, ha sottolineato Biden. “Dobbiamo solo ricordare chi siamo. Siamo gli Stati Uniti d’America”. Repubblicano o democratico, è sempre “make America great again”.

Diversificare vs isolare

Nuovi impianti sul proprio territorio, investimenti da parte del leader globale, Giappone e Paesi bassi in scia, l’Ue che osserva: allora gli Stati Uniti stanno vincendo la battaglia dei chip? Calma. La matassa resta ingarbugliata. La “triplice alleanza” è qualcosa, ma rappresenta un fronte ancora ristretto. Nel marzo 2022, Biden ha provato ad allargarlo, proponendo un patto nel nome dei semiconduttori. Battezzato Chip 4 Alliance, oltre agli Stati Uniti include Giappone, Sud Corea e Taiwan. A oggi, però, è un tavolo di lavoro e nulla più.

Un altro segnale poco incoraggiante è arrivato giovedì 30 marzo: le imprese taiwanesi – come riportato da Bloomberg – spingono per ottenere da Washington un sostanzioso alleggerimento fiscale, mentre il presidente di Tsmc Mark Liu ha definito “inaccettabili” alcune condizioni poste dal Chips Act. Per ricevere le sovvenzioni federali e incentivare il Made in Usa, infatti, ai partner viene chiesto di bloccare l’espansione in “Paesi a rischio” per dieci anni e di rinunciare a partnership su tecnologie sensibili. Cioè, in pratica, di allentare i legami con la Cina.

Tornando alle parole di chi qualcosa ne sa: secondo Morris Chang, “Taiwan, Giappone e Corea del Sud hanno un vantaggio competitivo nella produzione”, mentre gli Stati Uniti ce l’hanno “nel design” dei chip. La Cina, invece, avrebbe “un ritardo tecnologico di 5-6 anni” rispetto a Taipei. Ha però un poderoso piano di investimenti e solidi rapporti con le compagnie. Perché un conto è diversificare la propria geografia per ridurre i rischi legati all’approvvigionamento. Tutt’altro discorso è abbandonare Pechino. Almeno per un bel po’ di anni, la Cina non può fare a meno dei semiconduttori, ma chi li produce non può fare a meno della Cina.

La biforcazione delle filiere, ha sottolineato Chang, “penalizzerebbe lo sviluppo industriale”, perché “aumenterebbero i costi e rallenterebbe la penetrazione dei chip”. In un’intervista pubblicata su La Stampa il primo aprile e firmata da Lorenzo Lamperti, il ceo di Powerchip (altra società taiwanese di semiconduttori) Frank Huang è stato più chiaro: “È difficile riuscire a dirlo esplicitamente, ma sappiamo dall’inizio che le manovre degli Stati Uniti sui semiconduttori non sono giuste o buone per noi”.

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