Una gravosa questione culturale

Femminicidi & Violenza

Di

‘All’inizio pensavo che fosse una bella storia d’amore, ne ero convinta, anche se fin dal subito si era mostrato possessivo e geloso. Pensavo che lo facesse perché ci teneva a me, che mi considerasse speciale’.
Nell’arco di sei anni, Anna aveva lasciato più di una volta la casa familiare con i suoi due bambini per rifugiarsi dalla madre, ma si era sempre lasciata convincere a tornare, mossa dalle preghiere e promesse di Marco, il suo compagno: ‘Mi aggrappavo all’idea che sarebbe cambiato, che fosse pentito. Sono sempre rimasta attaccata all’immagine che mi ero fatta di lui nei primi mesi della nostra relazione e pensavo che la sua parte buona (anche lui ne aveva una) sarebbe prevalsa su tutto’.
L’unica volta che non è tornata indietro è stata quando ha accettato di andare in una casa rifugio, dove sapeva che lui non l’avrebbe potuta trovare.
Dopo quattro giorni che ero lì, avevo già dimenticato tutto, volevo scappare e tornare da lui. Ero come una tossicodipendente in crisi d’astinenza. E’ stato molto difficile: quello che le operatrici chiamavano violenza, io non riuscivo a valutarla come tale. Non ci riuscivo perché mi aveva convinta che non c’era nessuno di cui mi potessi fidare, che solo lui poteva aiutarmi a gestire la mia vita, visto che ero un’incapace’.
La situazione le si chiarisce quando legge la memoria che la legale le presenta, prima di presentarla al giudice. E’ l’atto che ripercorre la sua vita con Marco.
Per la prima volta Anna vede scritto, nero su bianco, quello a cui non riusciva a dare un nome: il naso rotto, gli schiaffi, gli insulti, le minacce coi coltelli, gli ordini a cui doveva obbedire, la casa distrutta in uno degli eccessi d’ira, le volte che il compagno tornava ubriaco, i soldi che lei guadagnava (mantenendo lui e i bambini) e che lui le rubava per giocare o che le chiedeva se doveva occuparsi dei piccoli mentre lei era a lavoro, come fosse una babysitter.
‘Quando, con le spalle al muro, ho dovuto scegliere tra lui e i bambini, ho capito che quando trattava male me, faceva del male anche a loro, perché se io stavo male come donna, non potevo di certo star bene come madre’.

Di fronte ad una storia come questa che finisce bene, ce ne sono tante che hanno un epilogo diverso.
Il Report della Direzione Centrale della Polizia Criminale evidenzia che dal 1° gennaio al 20 novembre 2022 sono stati registrati in Italia 273 omicidi con 104 vittime donne: 88 di esse hanno trovato la morte in ambito familiare/affettivo, 52 per mano del marito o dell’ex partner. Secondo l’Istat, ‘il 63% delle donne uccise non aveva parlato con nessuno della situazione di violenza che viveva. Solo il 15% aveva denunciato’.
Le istituzioni internazionali ci osservano con perplessità: la Convenzione CEDAW ha condannato l’Italia per i pregiudizi diffusi nei tribunali nazionali, mentre la Corte Europea dei Diritti Umani l’ha fatto 7 volte per non aver protetto le donne vittime di violenza e i loro figli, 4 volte soltanto nel 2022.
Dietro i numeri citati nei report appare un fenomeno trasversale che tocca età, classe sociale, area geografica, livello d’istruzione diversi.
Sbaglia chi pensa che la violenza sia una questione di donne, perché è essenzialmente una questione di uomini: ogni atto di violenza nasconde un pensiero che concepisce la donna come un soggetto più debole o addirittura inferiore.
Secondo la giudice di Cassazione Paola Di Nicola, nel nostro Paese servono un codice unico sul tema della violenza contro le donne, un’attività di prevenzione sul territorio basata sull’adeguata conoscenza di stereotipi e pregiudizi (a partire dagli asili nidi e dalle scuole dell’infanzia), la formazione obbligatoria per la magistratura e le forze dell’ordine.
Forse una formazione è necessaria anche per il personale dei Pronto Soccorso, dato che- secondo le risultanze dell’analisi condotta dal Ministero della Salute e dall’Istat – nel triennio 2017-2019 le donne che hanno avuto almeno un accesso in Pronto Soccorso con diagnosi di violenza, vi ritornano con diagnosi diverse. Il numero pro-capite dei loro accessi (a prescindere dalle diagnosi) è superiore a 5 e nella classe di età 18-44 anni è superiore a 6. Ciò significa che una donna che ha subito violenza nell’arco del triennio, accede al Pronto Soccorso in media 5/6 volte nel periodo suddetto.
Per prevenire la violenza, occorre innanzitutto riconoscerla. Stenta talvolta a farlo anche chi è in possesso di tutti gli strumenti. Come dimenticare la vicenda di Lucia Annibali, sfregiata a Pesaro dall’acido gettatole sul viso da sicari albanesi ingaggiati dall’ex fidanzato? Era avvocatessa. Lui, avvocato, la stalkerava da oltre un anno dopo che i loro rapporti si erano interrotti, ma nonostante ciò, Lucia ha fatto il suo nome (sicura che fosse stato lui) quando lo sfregio era già stato commesso.
In compenso nel luglio 2021, da deputata di Italia Viva, è riuscita a colmare una lacuna del c.d. Codice Rosso facendo approvare il proprio emendamento all’interno della Riforma della Giustizia Cartabia. Fino ad allora, lo stalker che trasgrediva il divieto di avvicinamento o allontanamento dalla casa familiare, poteva soltanto essere denunciato (in attesa del processo, le donne uccise erano molte). Ora, in caso di violazione, è previsto l’arresto immediato.
Paola Cecchini

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

CAPTCHA ImageChange Image

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Traduci
Facebook
Twitter
Instagram
YouTube