“Romeo e Giulietta” al Quirino di Roma, regia di Gigi Proietti, un’opera oltre il tempo e lo spazio

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Il grande attore nel ricordo di Loredana Scaramella, sua regista assistente per 35 anni

Nelle note di regia al “Romeo e Giulietta”, in scena al teatro Quirino di Roma, Gigi Proietti scrive: “Ho sempre pensato che la festa a casa Capuleti fosse una specie di sliding doors, che attraversata o evitata conduce a storie diverse. (…) E se fosse proprio l’amore la chiave che apre le porte del tempo proiettandoci nell’eterna favola dei due innamorati? Da qui sono partito per decidere di collocare la prima parte ai nostri giorni”.

Infatti, nella prima tranche dello spettacolo gli amici di Romeo (Matteo Vignati) e Mercuzio (Diego Facciotti) danno voce alle loro passioni come rapper leggeri e Giulietta (Mimosa Campironi) è una ragazzina di buona famiglia che suona rock e canta un pezzo scritto proprio da Mimosa. Poi la musica cambia, ci porta in un altro tempo e si rigenera il mito nel cuore della Verona rinascimentale dove due famiglie, i Montecchi (Roberto Mantovani) e i Capuleti (Antonella Civale e Martino Duane), sono divise da un odio secolare. Perché “Romeo e Giulietta” è un’opera che, esplorando i temi universali dell’amore, del destino e del conflitto familiare, va oltre il tempo e lo spazio.

Si cela qui la geniale intuizione del compianto Gigi Proietti, che ha curato la regia e tutte le fasi della messinscena. Una rappresentazione che nasce all’insegna di una delicata ricerca di stati psicologici e di atmosfere; come l’uso della nebbia, ad esempio, che viene accentuata nei momenti più tragici, a sottolineare l’idea di un mondo confuso, in cui si perde il controllo. Su tutto, come in una sorta di walking bass perpetuo, un andamento intenso e coerente, che mantiene sino alla fine l’unità di stile nel rifiuto di mezzi forti e di facili compromessi, un’adesione autentica al testo di Shakespeare, a cominciare dalla durata (quasi tre ore). Tutti elementi che sono il contrassegno di un’alta fedeltà alla via meno battuta e agevole. Perciò questo “Romeo e Giulietta” (traduzione di Angelo Dallagiacoma, costumi Maria Filippi, scene Fabiana Di Marco, movimenti di scena Alberto Ballandi, contributi musicali Roberto Giglio, assistente alla regia Francesca Visicaro, direttore tecnico Stefano Cianfichi) costituisce un’oasi di ispirazione autentica, di impegno schietto.

Approfondiamo il tema con Loredana Scaramella, regista assistente dell’opera, per 35 anni braccio destro di Gigi Proietti, del quale ha saputo cogliere, e raccogliere, questo straordinario testamento artistico.

Una curiosità, Loredana, perché è stata usata la canzone “Video killed the radio star”?

Questo spettacolo non è mio, nasce con la regia di Proietti. Io l’ho ripreso cercando di mantenerlo vivo, ma fedele a quello che era. Quindi bisognerebbe chiedere a Gigi perché ha usato la canzone “Video killed the radio star”. Penso che all’epoca, quando ce lo siamo chiesto, su che cosa mettere nella festa (lo sliding doors, l’elemento assolutamente imprevedibile, che cambia la vita di tutti i personaggi n.d.r.), era una canzone molto gioiosa, molto moderna, nel senso che era moderna per quelli che la ballavano, non per il pubblico, per il pubblico è un classico, e che poteva far parte di un festone, di un generone, che invita tutti i personaggi importanti a divertirsi, a ballare. Poi però, all’interno di questa festa, si crea una sorta di spaccatura e in quella spaccatura succede qualcosa che riporta tutto alla favola. Il pezzo sottolineava un mondo contemporaneo, un po’ caciaro, ma su quello si abbatteva all’improvviso questo “corto circuito” per cui ci si ritrova in un mondo trasversale, un mondo senza tempo.

Il fatto che gli attori entrino, ed escano, in scena dalla platea ha l’obiettivo di “rompere” la cosiddetta “quarta parete”?

Il fatto che gli attori entrino ed escano in scena dalla platea non vuole solo rompere la quarta parete, ma conservare quella tradizione di comunicazione che non conosceva proprio la quarta parete, perché fa parte del teatro elisabettiano, del quale noi presentiamo la facciata, in buona sostanza. La struttura dello spettacolo è molto simile, solo che non abbiamo i lati aperti. Però volevamo mantenere questo tentativo di fisicità a contigua e quindi creare un contatto fra gli attori e gli spettatori. Perché il teatro elisabettiano era un teatro non fatto per un pubblico che sta in silenzio, era un teatro molto sociale in cui la gente parlava, mangiava, si corteggiava, rubava… facevano un po’ di tutto mentre erano a teatro. Il teatro era un luogo sociale per eccellenza. Ci piaceva mantenere questa traccia, che c’era già al Globe (Gigi Proietti Globe Theatre n.d.r.), e che al Globe era molto più evidente, ma che abbiamo cercato di rispettare anche qua.

Che cosa resta oggi della lezione di Proietti, del suo rinnovamento artistico e intellettuale?

La specificità della rappresentazione è data dal fatto che, non essendoci più Gigi, e avendo firmato solamente la regia di “Romeo e Giulietta”, tenere in vita questo spettacolo è un po’ un elemento di memoria. Uno spettacolo antico in qualche modo, perché non è una riduzione, ma è messo in scena per esteso. I personaggi ci sono tutti, è una produzione da teatro stabile, ci sono 24 persone in scena, più tutti i tecnici sul retro. E’ qualcosa che viene fatto per testimoniare la presenza e il lavoro di una persona, il quale ha sempre pensato che gli attori, più di ogni altro elemento, fossero il centro dello spettacolo in teatro. Infatti, ce ne sono tanti, di tante età diverse, che è la tipica situazione del teatro elisabettiano dove si incontrano vecchi e giovani. E questa è una componente educativa fortissima, che a ragione viene fatta risaltare negli allestimenti, anche in questo, perché è strutturale. Viene raccontato sempre lo scontro fra generazioni. Molto spesso nelle commedie la gioventù ha la meglio, si associa e fa fiorire nuove comunità. In questo caso i giovani si uniscono per un loro ideale, che è un ideale d’amore, ma gli interessi degli anziani sono più forti e in qualche misura macinano questa carne giovane, vogliono solo i giovani questa storia, da tutt’e due le parti. Quindi, credo che difficilmente potremmo trovare un testo più universale di questo. E’ un’opera che di per sé ha unito tutta l’Europa culturalmente perché nasce in Italia da una novella del Bandello, trasmigra in Francia, dalla Francia arriva in Inghilterra, dove è ancora materia narrativa, e poi si trasforma con Shakespeare in un testo teatrale, ma la novella del Bandello c’è tutta. Quindi diciamo che è un coagulo di culture all’insegna di una storia che parla di intolleranza, di odio e di amore contrapposti. Mi sembra un tema attualissimo anche se poi l’allestimento è molto classico.

Qual è la natura di questo “Romeo e Giulietta”?

Ha una natura duplice di commedia e di tragedia, una tragicommedia. Gigi ci teneva molto a tenere in vita questo doppio aspetto e ho fatto di tutto perché rimanesse questo vitalismo, che poi per certi versi scompare davanti al nero della tragedia. Però, per tutta la prima parte, per tutto il primo tempo, questo lato è molto vivo, ci sono tanti personaggi, che sono contraddittori, che fanno delle cose che non dovrebbero fare, le fanno con slancio, non hanno il senso del limite, di quanto possano incidere su una realtà, che può diventare tragica da un momento all’altro. Sono personaggi che hanno un po’ di potere, la nutrice (Loredana Piedimonte), ma soprattutto frate Lorenzo (Massimiliano Giovanetti). Non parliamo poi di padre Capuleti, che non capisce niente, e distrugge ancora di più quello che non sia già stato distrutto. Quindi, questa contaminazione di generi, che era molto cara a Gigi, io ho cercato di mantenerla in vita il più possibile. Poi, mettere le mani su qualcosa pensato da un’altra persona, che conoscevi molto bene, perché io e Gigi abbiamo lavorato insieme per più di 35 anni, è un’operazione delicata, ma è un’operazione secondo me affettiva anche, è molto rispettosa. Qualcuno ha detto perché non si scrive “regia di Loredana Scaramella”, ma non è mia, questo è un pensiero di Gigi e io ci tengo che rimanga tale, cercando di mantenerlo vivo, non di farlo diventare un mobile in stile, perché quello non piacerebbe neanche a lui. Qualche interprete è cambiato, sebbene per la maggior parte della compagnia sono cambiati più i giovani, ma per un ottanta per cento sono i ruoli che lui aveva scelto, quindi è coerente a livello di cast, e le persone sanno che cosa Gigi aveva chiesto, che cosa voleva raccontare.

Si è creato del malcontento, dunque, per aver mantenuto la regia di Gigi Proietti?

C’è una vecchia pratica, che è quella del regista assistente. Ora io faccio il regista, ma in tante occasioni capita proprio così, lo dico perché ho capito che anche chi fa parte di questo mondo ormai non sa bene più quali siano i ruoli e come si chiamino. Voglio dire, se al Piccolo teatro di Milano continuano a fare l’Arlecchino di Strehler, con la regia di Strehler, c’è sicuramente un regista assistente, come c’è, negli spettacoli da opera, con la regia di Visconti o di Zeffirelli. C’è un regista assistente, soprattutto per Zeffirelli, che è mancato di recente, il quale si occupa di tenere in vita qualcosa che sapeva molto bene, avendo avuto frequentazione, affinità, conoscenza degli obiettivi del regista. Mi stupisce che una parte dell’ambiente dica “ma perché firma ancora Proietti?”. Perché la regia è di Proietti. Io mi limito a cercare di non farla diventare una muffa, ma di tenerla in vita innaffiandola. Per questo c’è scritto regista assistente, che non è un affronto a nessuno. Io vivo in pace e faccio le mie regie quando le devo fare, quando le voglio fare, in questo caso mi piace restituire al pubblico qualcosa che ha pensato una persona con la quale ho condiviso tanto palcoscenico, tante idee, tante conversazioni, affetto, amicizia, stima. Penso che sia un gesto d’amore e di rispetto da parte di tutti, nella produzione che investe tanto – una produzione familiare, ma comunque gli investimenti sono investimenti, anche se la produzione è familiare – e da parte degli attori, che con Gigi avevano un rapporto meraviglioso, perché con gli attori lui era fraterno, mai supponente, sempre amico, sempre sodale, mai antagonista, e questo è un dono meraviglioso.

 

 

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