Inter-Udinese 4-0

Sport & Motori

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di Filippo De Fazio

Non poteva essere Inter-Udinese, poi terminata per quattro a zero, a poter far tremare i polsi ai bookmakers. Non era da quella partita che sarebbero potute arrivare sorprese a loro sgradite. Sanno bene il loro mestiere, mica li freghi facilmente. Oddio, non è che bisognasse essere degli scienziati per riconoscere l’abissale differenza di tasso tecnico stante tra le due squadre. E dove non potesse arrivare l’occhio, sarebbe bastato affidarsi alla fredda matematica

Ebbene l’Udinese, sedicesima forza nella classifica di serie A, arrivava a Milano con in carniere una sola vittoria, come la Salernitana ultima in classifica, nove pareggi e cinque sconfitte. La miseria di dodici gol all’attivo (peggio di lei solo l’Empoli e la solita Salernitana) a fronte di venticinque al passivo, che ne facevano la quinta peggior difesa. Con i quattro gol presi dall’Inter è diventata la quarta difesa più bersagliata.

Il risultato di tutti questi fattori è stata una partita a senso unico. A conforto della tesi, di nuovo i freddi numeri. Possesso bulgaro indovina per chi, 75 a 25; Tiri verso la porta 25 a 12; poi altri spiccioli su cui si può sorvolare, tra calci d’angolo, falli e precisione dei passaggi.

Apparecchiato e poi servito il previsto surclassamento, all’Udinese non è rimasto che limitare i danni, perché per i punti nisba, quelli bisognerà farli su altri campi.

Pioveva su San Siro. Non solo acqua, ma anche tiri, tanti, verso la porta di Silvestri. Al decimo minuto Lautaro era già lì a scuotere il palo con un bel colpo di testa dopo un cross da sinistra di Dimarco. Una sentenza, praticamente.

Se la fascia consolidata era quella mancina, nuova e quasi sperimentale era invece quella dall’altra parte, dove era chiamata ad agire la strana coppia Bisseck-Darmian, con il tedesco a fare il terzino (scusate, proprio non ce la faccio a chiamarlo “braccetto”) e l’italiano l’ala a tutto campo (sono disponibile a considerare l’uso del sostantivo “cursore”).

I due si sono intesi a meraviglia (in attesa di prove più complesse che mettano alla prova e ne confermino le affinità) interpretando i loro ruoli in maniera fluida, libera dai preconcetti imbalsamati di chi li vuole distinti e manichei: tu sei centrocampista, tu difensore. I due si slegano da quelle convenzioni e inventano calcio come viene, muovendosi in funzione dell’inerzia che suggerisce la singola azione. Ci ho ricamato sopra, lo ammetto ma, nella sostanza, è stata una bella novità vedere quel lungagnone pestare zolle con la sapienza di un veterano, scambiarsi ruolo e posizione con il suo sodale, accettare con convinzione le sue indicazioni: ragazzo si farà.

Certo, non ci fossero state certe defezioni, il buon Yann avrebbe visto il campo dalla panchina o al limite negli ultimi scampoli del match. Inzaghi, dovendo rinunciare a Dumfries e De Vrij (che rivedremo verosimilmente più nei regali della Befana piuttosto che in quelli di Babbo Natale) ha dovuto violentare la sua stessa mano nel redigere la distinta da consegnare al signor Marco Di Bello.

Dove eravamo? Al decimo minuto, palo di Lautaro. Poi si è dovuto aspettare un po’, mettere all’angolo l’Udinese, lavorare di jab, fargli abbassare la guardia, trovare lo spiraglio per colpire d’uppercut. Invece è stata una presa di Wrestling a sbloccare la lancetta del segnapunti. La trattenuta di Perez su Lautaro c’è tutta, le telecamere la mostrano in tutte le angolazioni. L’entità invece non è chiara, sarà il caso di chiederlo all’attaccante. Ma a fior di regolamento, quello è un penalty che si dà. Calhanoglu è il chirurgo chiamato a risolvere certe beghe, ha la mano ferma e i suoi tagli sono precisi e puliti. La rasoiata che indirizza la palla alla destra di Silvestri è perfetta, l’operazione perfettamente riuscita.

Si annoti il trentaseiesimo minuto, perché da quel momento la partita penderà dalla parte dell’Inter in maniera se possibile persino più netta. Era lo scarico d’ansia che si aspettava per poter osare giocate a favor di pubblico, scambi veloci, dribbling, filtranti arditi. E infatti poi si rompono le cataratte, cinque minuti dopo arriva il raddoppio, a suggellare una partita che ha un solo padrone.  Lautaro ha una fame che manco Salvini alla sagra della porchetta di Ariccia, sradica il pallone dai piedi di Walace e la passa a Calhanoglu. Il turco vede la corsa di Dimarco che riceve la palla sul piede giusto: è quello che fa partire il tracciante che finisce nell’angolo alla sinistra del frastornato Silvestri. Passano ancora due minuti e arriva il terzo gol, da azione corale e appoggio a porta spalancata di Thuram.

Gabriele Cioffi, allenatore dell’Udinese, si trova nella scomoda situazione di dover decidere se è il caso di provare a ribaltare una partita che riconosce come già compromessa o puntellare la squadra per evitare di prendere un’imbarcata letale per l’autocompiacimento dei suoi ragazzi, già ridotto ai minimi termini. Nel dubbio, colpevolmente, non fa niente.

Quel che resta del match è un’esibizione di stile, con l’Inter impegnata a stritolare il suo malcapitato avversario, incapace anche solo di organizzare un contropiede. E’ una partita segnata, nell’esito ma non nel risultato, che purtroppo per l’Udinese può solo peggiorare. E infatti in attesa del quarto, quinto e sesto gol si registrano, tra gli eventi a contorno della mattanza, al 51esimo il primo passaggio sbagliato di Thuram: al 62 esimo Inzaghi che cazzia chiunque dei suoi che stia dando segni di mollare; all’80esimo Sammer che fa esercizi per combattere i tre gradi celsius scarsi che congelano lui e i settantamila presenti nel Meazza. Ritorna buono, anche la scusa della tranquillità, la possibilità di provare il recupero di palla subito dopo averla persa, quand’anche nella metà campo avversa, come scritto nel vangelo secondo Guardiola: l’Udinese accetterà il ruolo di cavia, basta – per pietà – che non gli si faccia ancora del male.

Ne arriverà solo uno di quella messe di gol che sembrava poter venire. A dirla tutta non ci sarebbe stato nemmeno quello se non fosse per Lautaro che un’altra domenica (non segnava da due mesi, da Bologna-Inter 2-2) in famiglia passata col muso, ombroso, capriccioso e taciturno, proprio se la voleva evitare. Così, quello spocchioso, il gol se lo è costruito da solo, prima mangiando in testa ad Payero cincischiante, poi avvicinandosi all’area di rigore e infine sparando forte a fil di palo, “tanto oggi Silvestri non ne prende una manco per sbaglio”.

Ci sarebbero state ancora, tra la fine dei novanta minuti e il recupero, almeno dieci minuti buoni per segnare ancora ma l’Inter decide che non è il caso di infierire, soprattutto ora che Lautaro ha goduto. La vetta del campionato è di nuovo nerazzurra, il controsorpasso sulla Juventus c’è stato anche stavolta. Juventus che aveva fatto il suo battendo il Napoli per uno a zero, come suo solito. I puristi storcono il naso davanti alle loro perfomances che trovano discutibili, ma è uno sterile questionare: se una cosa funziona perché cambiarla?

Lo sfondone fatto a Mazzarri dal suo presidente è epocale: consegnargli la squadra senza avvisarlo che in calendario lo avrebbero aspettato in serie Atalanta, Real Madrid, Inter e Juventus è stato pura infingardaggine. Si scherza, ovviamente. Però qualche dubbio sull’utilità di un cambio in corsa così repentino e in un momento così delicato della stagione, è lecito. Il Napoli di Mazzarri perde lo scontro con la Juventus secondo le stesse modalità di quello con l’Inter, seppur con diversi punteggi. Spingendo forte all’inizio, mancando più volte il gol che avrebbe girato il match a loro favore, calando vistosamente nella ripresa, finendo con un forcing condotto più con la forza dei nervi che in quella delle gambe. Azzardo un’ipotesi: non sarebbe stato meglio cambiare piuttoso il…preparatore atletico? Il Napoli che raccoglie zero punti con le prime due della classe scivola così al quinto posto, ora incalzato seriamente da Fiorentina e Bologna.

Il solco tra le prime due e quelle dalla terza in poi, diventa corposo grazie all’inciampone in cui si imbatte il Milan tra le mura bergamasche dove, dopo aver raggiunto per due volte l’Atalanta, ha negli ultimi dieci minuti accarezzato l’idea di poter vincere: nove punti da quella specie di collo di bottiglia che si è generato non sono un abisso, ma di certo non confortano degli aurei propositi. Le va di lusso che quelle appena dietro, Roma e Fiorentina, finiscano per impattare tra loro, con i padroni di casa che la buttano in caciara senza motivo, come spesso succede alle squadre di Mourinho, facendosi espellere un uomo, Zalewski, quando ancora sono in vantaggio, Al tecnico portoghese piace gestire le sue squadre mantenendole costantemente sul filo dell’emotività: un pizzico sotto la crisi di nervi. La storia del tecnico racconta per lui che è una strategia che a volte paga, molto spesso no. O meglio: paga quando ha sottomano una squadra di livello che sa gestire le vari fasi del match. La Roma di oggi non è alla sua altezza: segna, sbanda, esce di strada, finisce cappottata, solo per miracolo finisce per non perdere. Le due espulsioni raccontano quel certo momento.

Il fatto che uno dei due espulsi sia Lukaku, giocatore dal carattere normalente mite e accomodante (almeno finchè è in campo) la dice lunga sul modo di intendere il calcio del Mou romano.

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