Sudan, l’infermiera: “La caduta di Wad Madani è un disastro, ora Khartoum è isolata”

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Manahel Bader è capo infermiera del ‘Salam’, il centro di cardiochirurgia gestito da Emergency

Foto: Davide Preti per Emergency

ROMA – “In Sudan la situazione è disastrosa: speravamo in un accordo tra le parti che ci restituisse una vita normale e invece i paramilitari sono entrati a Wad Madani. Sappiamo di combattimento e la gente cerca di fuggire, ma le strade sono pericolose. Preghiamo che la guerra finisca: in Sudan si muore in moltissimi modi: di cancro, malattie, patologie non curate o per gli scontri armati“. Con l’agenzia Dire parla Manahel Bader, capo infermiera del ‘Salam’, il centro di cardiochirurgia gestito da Emergency nella capitale Khartoum. L’ospedale è l’unico polo di riferimento per le patologie cardiache ancora attivo nel Paese da quando lo scorso 15 aprile sono cominciati i combattimenti tra l’esercito e i paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf).

Queste ultime lo scorso fine settimana sono entrate a Wad Madani e hanno preso il controllo della città, capoluogo dello Stato di Gezira, circa 130 chilometri a sud-est di Khartoum. La città era diventata negli ultimi otto mesi rifugio per centinaia di migliaia di sfollati, che avevano portato la popolazione a 700mila persone, come riporta le nazioni Unite. Ora, come avvertono le agenzie Onu, è teatro di scontri e saccheggi. “Molti servizi da Khartoum erano stati spostati a Wad Madani, come banche, uffici amministrativi o le sedi delle ong” riferisce la capo infermiera. “Khartoum ora è completamente isolata”.

WAD MADANI OSPITAVA SFOLLATI E UFFICI PUBBLICI E PRIVATI

Anche lo staff di Emergency, che a Wad Madani aveva una clinica satellite, è stato costretto ad andare via. Un problema anche per il Salam, conferma alla Dire il medico perfusionista Daniela Rocchi, che lavora stabilmente nel centro di cardiochirurgia dal 2015. “Oltre alla clinica satellite Emergency ha un magazzino in città colmo di scorte che erano pronte a partire, insieme a colleghi locali e internazionali” riferisce la dottoressa. “Ora è tutto bloccato perché non esistono strade sicure per raggiungere Khartoum“.
La guerra, riprende la capo infermiera Bader, ha causato “la chiusura della stragrande maggioranza degli ospedali, sia pubblici che privati, perché non le strutture non riescono a mantenere lo staff oppure a rifornirsi di materiali e farmaci. Persino raggiungere gli ospedali è pericoloso”.

La capo infermiera Manahel Bader, foto di Emergency

Il ‘Salam’ va avanti anche grazie al fatto che “è attivo da molti anni e ha una reputazione consolidata” sottolinea Bader. “Le parti in guerra riconoscono che svolgiamo un servizio vitale per la popolazione“. Al momento il centro ospita 27 pazienti, a cui si aggiungono persone che accedono a visite o esami programmati, ma anche al pronto soccorso, per le ferite riportate negli scontri che non risparmiano civili o personale umanitario. Il 10 dicembre scorso l’ospedale di Emergency ha accolto nove membri della Croce Rossa, il cui convoglio era appena stato attaccato. Nell’agguato erano state uccise due persone. Nonostante le difficoltà, “nessun reparto è stato chiuso” assicura la responsabile, “ma lavoriamo al 50% della capacità”.

LA VICENDA DI MOHAMMAD, UNA STORIA A LIETO FINE

Ciò non impedisce però di “lavorare con soddisfazione”, come conferma Bader citando la storia di Mohammad, dieci anni arrivato al Salam dopo un viaggio ad alto rischio di otto giorni con il papà: “Aveva un grave problema al cuore, lo abbiamo operato subito. Ora sta bene, ha un volto sano e presto potrà tornare da sua madre, rimasta in un campo sfollati insieme ai fratellini a Nyala”. In questa città della regione del Darfur le Rsf hanno saccheggiato il Centro pediatrico di Emergency, come denunciato dalla stessa organizzazione.

Mohammad col papà, foto di Emergency

Stime dell’Onu confermano che il conflitto in Sudan ha generato un numero record a livello mondiale di sfollati interni, pari a quasi cinque milioni. La povertà, le strade insicure ma anche i blackout nelle comunicazioni hanno fatto perdere i contatti con molti dei pazienti del Salam, che dal 2007 ha curato 11mila persone, soprattutto sudanesi. Per questo “ci stiamo dedicando a rintracciarli” dice la capo infermiera, “chiamandoli uno per uno”. C’è una campagna che, in tempi di guerra, continua anche sui profili social dell’ospedale. Agenzia DIRE e l’indirizzo www.dire.it

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