“Sei personaggi in cerca d’autore”: il capolavoro di Pirandello, in scena al Teatro Sala Umberto di Roma, secondo Sinisi

Arte, Cultura & Società

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La versione di Michele Sinisi dei “Sei personaggi in cerca d’autore”, in programma al Teatro Sala Umberto di Roma fino al 10 marzo, è spiazzante, nel suo significato più concreto di sorprendere, mettere fuori gioco.

In questa messa in scena del capolavoro di Luigi Pirandello, Sinisi (che cura la drammaturgia insieme a Francesco M. Asselta) in “realtà” non ha un sistema e non ha una tesi: non possiede, cioè, il monopolio della verità e non intende che altri lo esercitino. Il che è buono.

Per comprendere questo passaggio, è utile rinfrescare la “trama”. Mentre il capocomico di una compagnia drammatica sta mettendo in prova una nuova commedia di Pirandello, compaiono in scena delle stranissime creature, con l’aspetto tra il reale e l’irreale (“la vita è piena di infinite assurdità”), che si presentano come il Padre, la Madre, la Figliastra, un Giovane, Madama Pace… l’unico tra i
personaggi a non essere presente in scena fin dall’inizio. Tutti questi personaggi (persone?) cercano di delinearsi davanti ai propri ascoltatori. Parlano, ora l’uno e ora l’altro a scatti, convulsamente, mostrando con modi informi le loro controversie, in un intreccio di toni, di modi e, nella regia di Sinisi, soprattutto di più piani narrativi: la contrapposizione tra quello che è reale e quello che è immaginario, che oggi con i social non esiste più, ha smarrito il suo significato; il dissidio irrisolto tra arte e vita; il confine quasi inesistente tra i generi, tra i ruoli, tra scena e realtà; il tema dello sdoppiarsi e moltiplicarsi dell’io…

Ora, dalla prima rappresentazione al Teatro Valle di Roma il 9 maggio del 1921 a quelle mitiche di Carlo Cecchi nel 2002 o di Luca Ronconi del 2012 a Spoleto per il “Festival dei 2 Mondi” (passando per Massimo Castri, Luigi Squarzina, Giorgio Strehler ecc.), ogni volta che si ripropongono i “Sei personaggi”, l’espediente che inevitabilmente si fa è quello di provare a rovesciare la prospettiva.

L’opera esplora il confine tra realtà e finzione e mette in discussione la natura stessa della rappresentazione teatrale, e fino a qui… Anche in questa riproposizione, come da canone consolidato, in principio l’azione si snoda tra il palcoscenico e la sala del teatro. Ma poi, grazie a un PC, a uno schermo gigante e a internet, che consentono di effettuare un salto quantico in una dimensione altra, “in uno specchio riflesso all’infinito”, Sinisi compie un triplo salto mortale e mette in scena la realtà virtuale e la finzione virtuale (la finzione della finzione cioè) creando transizioni fluide e accentuando, semmai ce ne fosse bisogno, la tematica di Pirandello sull’instabilità della realtà nella frammentazione scenica, trasportando il pubblico in ambienti alternativi, in spazi immersivi, che riflettono le esperienze dei personaggi al di là del palcoscenico. Scomparse, o quasi, le scene; persone/personaggi “a sorpresa” in ogni replica, emerge una compagnia di attori solida e affiatata (Stefano Braschi, Marco Cacciola, Gianni D’Addario, Sara Drago, Marisa Grimaldo, Marco Ripoldi, Stefania Medri, Donato Paternoster, Michele Sinisi, Adele Tirante, Nicolò Valandro), ben focalizzata sulla linea comune di un teatro impostato su un valido principio di collettività.

Detto questo, la reiterazione quasi ossessiva delle immagini virtuali, l’uso iperbolico dei timbri e dei toni (l’insistente voce di testa della Madre, per esempio, giustifica in parte la necessità del personaggio di dover replicare lo stesso grido di dolore; il riso tragico, ma stridulo, della Figliastra, che pure è una costante di Pirandello, si veda Ilse nei “Giganti della montagna”) può essere potente nel comunicare emozioni intense o nel catturare l’attenzione ma, se mantenuto costantemente, senza variazioni, potrebbe perdere il suo impatto e diventare mono tono; sopraffare il pubblico impedendogli di “connettersi” emotivamente con la trama, creare personaggi che sembrano caricaturali piuttosto che grotteschi. Al contrario, la rappresentazione iperbolica di Madama Pace incarna in modo convincente la volgarità nella sua ostentazione, l’ipocrisia nel suo comportamento falso e lo sfruttamento attraverso la sua abilità manipolatoria. E anche questo è Pirandello.

Sappiamo bene che “Sei personaggi” e il suo geniale autore, il “far parer vero quello che non è”, sono un’occasione fortissima di sperimentazione. Tuttavia, un eccesso di piani narrativi, l’inclusione di troppe trame parallele, inducono a un sovraccarico informativo che può compromettere la comprensione complessiva dell’opera e della messa in scena.

Conseguenza di tutto questo è l’impossibile finale: un uomo e una donna, simulati dai giganteschi arti inferiori di due gigantesche marionette, come metafora dell’incesto evitato appena in tempo tra il Padre e la Figliastra.

Anche se non sempre gli esiti sono come li si vorrebbe, lo spettacolo merita di essere visto per aver saputo interpretare uno dei punti di forza del teatro pirandelliano, ovvero la filosofia della crisi europea e lo sforzo di entrare nel vivo della cultura moderna.

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