Lost in translation

Cinema

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Il film che traduce la lingua dei silenzi

Partiamo dall’unica nota stonata, ovvero l’adattamento italiano del titolo: “L’amore tradotto”. Riduttivo oltre che non affatto calzante. Perciò non aspettatevi la solita commedia romantica, anzi… ed oserei dire per fortuna.  

Vincitore nel 2004 del premio Oscar per la miglior sceneggiatura originale (scritta in sei mesi!), di 3 Golden Globe e giudicato film dell’anno dall’ American Film Institute Awards, con Lost in translation Sofia Coppola, regista e sceneggiatrice, non tradisce la sua peculiare propensione verso l’esplorazione dell’animo umano.  

Protagonisti di questo nuovo limbo esistenziale sono Bob Harris (Bill Murray) e Charlotte (Scarlett Johansson), entrambi immersi nelle proprie crisi d’identità. Detta così qualcuno potrebbe immaginare un melodramma difficile da metabolizzare…niente di tutto ciò…il percorso, nonostante impervio, è affrontato con quell’ironia beffarda e curiosa che ne allevia la salita.

Bob è un attore di Hollywood di mezza età, che violentando la propria dignità attoriale, si trascina in Giappone per girare uno spot per una marca di whisky giapponese. In valigia porta solo quella maschera che indosserà per nascondere un volto vuoto e le macerie di un matrimonio oramai destinato a crollare. Charlotte si ritrova a Tokyo insieme a suo marito, un promettente fotografo che cavalca forsennatamente la propria strada per il successo, lasciandosi alle spalle ogni opportunità che possa dare una risposta al perché  del loro rapporto.  Il silenzio che incombe nella stanza ad ogni sua partenza è il rumore del vuoto che lentamente s’impossessa della loro distanza. Charlotte che è lì vicina a lui  si accorge di essersi allontanata da se stessa.

Bob e Charlotte non si conoscono, ma l’attrazione verso ciò che “ri-conoscono” li calamiterà l’uno verso l’altra. Per rendere la sua storia cinematografica la nostra storia personale, la Coppola utilizza la tecnica della sequenza, dove la consequenzialità degli eventi non origina da schemi di montaggio, ma dal semplice fluire del vivere e del pensare, che ci permette di seguire passo dopo passo l’evoluzione di un rapporto fatto di connessioni.  

Le due anime perse vagano disperse, confuse, tra gli angoli di un albergo, nel loro silenzio immerso nel rumore di un paese troppo veloce da capire. Ecco che però lo sguardo malinconico ma sarcastico di lui e quello tagliente ma accogliente di lei si incontreranno senza bisogno di presentarsi mai.     

Si avvicineranno lentamente, adagio, guadagnando a poco a poco terreno, il tempo necessario per non disunirsi definitivamente ed unirsi di nuovo all’altro. La regia, con coerenza, propende per una fotografia dai toni soffusi, scioccati solo dalle luci prepotenti al neon che decorano una città insonne, come insonni sono loro. Murray, in splendida forma (vincerà un Golden Globe ed un Bafta), trasporta con dignità il peso del proprio disagio, riuscendo a conservare anche dosi di ironia e di sagacia; Charlotte, ancora indenne dalla disillusione, varca il confine della stanza in cui si è rinchiusa, in cerca di ossigeno per le sue domande.

La città che le ruota attorno è una chiara dimostrazione dell’incoerenza e della mutevolezza. La velocità, il superfluo, l’ammaliante coesistono con il silenzio, l’essenziale ed il leale. Sentirsi perennemente fluttuanti ed incoscienti a bordo di montagne russe ma con le mani serrate per paura di cadere.

L’anatomia della comunicazione è su tre livelli: quello propriamente linguistico, dove un confuso Bill ha difficoltà nel comprendere le esigenze di un logorroico regista, attraverso traduzioni scarne, minimali, non attente ai dettagli. Poi c’è il dialogo con se stessi, accompagnato spesso dal silenzio che si genera dopo il dubbio. E poi quello finale, ma non certo ultimo di complessità. Cercare di dare un nome ad un’emozione embrionale. Ed ecco come ci sente… lost in translation.

Ma l’irrazionale ci viene d’aiuto e può anche tradurre meglio della logica.

Il tempo e lo spazio a loro disposizione non seguono le leggi della ragione,  il filo che li lega è fragile ma abbastanza robusto da dimostrare quanto quello cucito addosso da anni sia oramai logoro. Si porranno domande sostanziali ed esistenziali a cui reciprocamente daranno risposte, con gli occhi rivolti al passato di lui e quelli al futuro di lei.  

Chiudiamo in bellezza…il finale!! La delicatezza sottotraccia che ci accompagna per tutto il film, esplode in tutta la sua potenza, con eleganza, nella sequenza finale. E’ stata giudicata come una delle più misteriose ed enigmatiche della storia del cinema, e posso garantirvi che ognuno di voi avrà una reazione diversa, perché ognuno vedrà un finale diverso.

Tutti ci sentiamo stranieri. Ognuno ha il suo linguaggio. Basta riconoscere chi possa comprenderlo.

Su Sky, Netflix e Prime video.

 

 

 

 

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