Dalla Baia dei Porci alla globalizzazione “cinese”: le crisi planetarie e le lezioni del virus

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DALLA BAIA DEI PORCI ALLA GLOBALIZZAZIONE “CINESE”: LE CRISI PLANETARIE E LE LEZIONI DEL VIRUS – di Nico Tanzi
 
di Nico Tanzi

ZURIGO\ – “Avevo poco più di un anno la prima volta che l’umanità si è trovata di fronte a una minaccia concreta per la sua stessa sopravvivenza. Era il 1962. I sovietici avevano piazzato dei missili a Cuba; gli americani, che l’anno prima avevano fallito l’invasione alla Baia dei Porci, reagirono facendo la voce grossa. Il capo di stato maggiore dell’aviazione USA era dell’idea di bombardare l’isola. Il rischio di una guerra nucleare era concreto. Poi la ragione prevalse, e l’allarme rientrò”. Partono da lontano le riflessioni che Nico Tanzi affida alle pagine de “La rivista”, mensile diretto a Zurigo da Giangi Cretti.
“Di grandi crisi, dopo di allora, ce ne sono state altre; ma nessuna di esse avrebbe più comportato un rischio globale così elevato.
Nel 1973, durante la guerra del Kippur, la decisione dei paesi arabi di alzare il prezzo del petrolio per punire gli Stati uniti e gli altri stati filoisraeliani diede il via ad una crisi energetica che certamente lasciò il segno; ma l’austerità colpì soprattutto l’Europa occidentale. Ed ebbe anche effetti positivi: per esempio, si cominciò a pensare a fonti energetiche alternative al petrolio. E noi ragazzini nelle domeniche senz’auto riscoprimmo il piacere di giocare a pallone per le strade, e di lanciare le bici a tutta velocità sulle statali deserte. Nel 1980, e poi quattro anni dopo, Usa e Urss si boicottarono a vicenda le rispettive olimpiadi.
Sullo sfondo, le tensioni legate all’invasione dell’Afghanistan, allora filoamericano. Ma la crisi non venne percepita come un rischio per il mondo. Sarebbe rientrata di lì a poco, quando Gorbaciov decise che era ora di abbattere la cortina di ferro. I decenni successivi volarono sull’onda dell’euforia neoliberista. E poi arrivò la prima sberla. Quell’11 settembre che segnò la fine del “secolo breve” e sembrò dare ragione a Samuel Huntington, profeta dello “scontro di civiltà”.
Il terrorismo fondamentalista innescò una crisi dolorosa, rivelando sfilacciature sociali, economiche e culturali che fino ad allora ci aveva fatto comodo ignorare.
La caduta del comunismo non sarebbe stata la “fine della storia”: lo scontro, semplicemente, si spostava dall’asse est-ovest a quello, ancora più simbolico, della difesa del nostro “way of life” minacciato da un’entità oscura semplicisticamente identificata con un vessillo religioso. Riassorbito il crollo delle borse però, e al di là di singoli momenti di sbandamento, la vita continuò più o meno come prima. Con meno viaggi esotici e più vacanze a Rimini, magari.
Ben più devastante sotto il profilo finanziario fu la crisi del 2008, quella dei mutui subprime, dei titoli spazzatura, con il crollo del mercato immobiliare USA. L’effetto domino innescò una recessione mondiale da cui solo di recente sembravamo essere usciti. Non fu però una crisi culturale, ma solo economica – purtroppo. Ci avrebbe fatto bene mettere in discussione gli eccessi neoliberisti che avevano portato alla catastrofe: ma lo hanno fatto in pochi. Con la conseguenza che l’occidente, dopo essersi assuefatto alla crescita delle diseguaglianze, comincia a sperimentarne i costi sulla propria pelle, alimentando l’incertezza e la sfiducia nelle istituzioni, Europa in testa, da cui ci si aspetta un aiuto concreto a migliorare la qualità della vita.
Intanto la globalizzazione assume sempre più fattezze orientali. E proprio dalla Cina ci arriva il Covid 19. L’ultimo flagello.
Ma stavolta a finire in ginocchio non è solo l’economia. Il virus ha una carica archetipica così potente, ed effetti così dirompenti sulla vita di tutti, da destabilizzarci sia in quanto società che in quanto individui. Ci costringe a reinventare, letteralmente, le modalità di gestione del quotidiano: nei rapporti interpersonali e in quelli affettivi, in famiglia e al lavoro, e in tutte le dimensioni della vita sociale. Ogni rito collettivo viene sospeso, e il cambiamento nelle modalità di interazione è affidato – al di là delle regole, mai così provvisorie – alla volontà e all’azione dei singoli.
Intanto si scopre che l’unico baluardo contro il nuovo nemico, la pandemia, è uno stato forte: con buona pace della pletora dei tifosi del “meno stato”, improvvisamente scomparsi dall’orizzonte. L’individuo e la società, la dimensione privata e quella collettiva, riacquistano un senso che sembravano aver smarrito. Chissà, forse dal coronavirus – passato lo spavento e seppelliti i morti – riusciremo ad imparare anche qualche lezione utile”.  

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