Le suore di Genova che danno assistenza agli ucraini sotto sfratto

Liguria

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Sono le sorelle di casa Raphael, convento di via Byron, nell’elegante quartiere di Albaro. Sul loro operato incombe la decisione della proprietà del complesso di realizzare – molto probabilmente – una casa di riposo per anziani e alcuni posteggi.

AGI – Sono sotto sfratto, ma continuano a tenere le porte aperte all’accoglienza, non ultima quella per 25 cittadini ucraini. Sono le suore di casa Raphael, convento di via Byron, a Genova, nell’elegante quartiere di Albaro. Sul loro operato incombe la decisione della proprietà del complesso, ovvero l’Ordine delle Suore Sacramentine di Milano, di mandar via le sorelle per realizzare – molto probabilmente – una casa di riposo per anziani e alcuni posteggi.

Nella struttura attualmente, vivono 55 persone: 10 suore, un sacerdote e 44 ospiti, non solo ucraini, ma anche siriani, slovacchi, indiani, cubani. Lo sfratto avrebbe dovuto diventare esecutivo il 30 settembre scorso, “ma – spiega all’AGI suor Emmanuel – il nostro avvocato ha presentato ricorso e l’appello sarà il 2 novembre prossimo. Siamo in attesa di capire come evolverà la vicenda, fiduciose che si possa andare avanti”.

Suor Emmanuel ci accompagna nell’immensa struttura, fatta di lunghi corridoi su cui si affacciano le numerose stanze dove trovano riparo le persone in difficoltà: “È sempre stata questa la nostra missione – racconta – Casa Raphael è legata all’istituto Edith Stein e nasce una ventina di anni fa per volere di padre Raffaele Donghi e di Grazia Maria Costa con lo scopo di aiutare le religiose o i sacerdoti in difficoltà psicologica o esistenziale, in una sorta di casa di accoglienza. Dal 2015, con l’aumento degli sbarchi sulle coste siciliane, la Prefettura ha bussato alla nostra porta in emergenza per chiedere posti dove inserire i migranti che arrivavano sul territorio”.

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Da allora la vocazione della Casa incastonata tra il glicine di via Byron è parzialemente cambiata: “Abbiamo accolto, tra i pochi istituti religiosi a farlo, tantissime ragazze africane provenienti da Nigeria, Camerun, Costa d’Avorio, Kenya, Eritrea, Etiopia: arrivavano senza nulla, spesso vittime di tratta. Ci siamo aperte a qualcosa che non avevamo mai fatto prima e, per sei anni, abbiamo collaborato con la cooperativa Agorà per accogliere e integrare queste donne”.

Parallelamente proseguivano i percorsi riabilitativi psico-fisici e spirituali, nonché l’assistenza e il supporto ai bisognosi finché, con l’esplosione della guerra tra Russia e Ucraina, la Prefettura ha nuovamente bussato al convento. Così, da circa venti giorni, le suore accolgono le ucraine scappate dalle bombe, in collaborazione con la cooperativa Il Cesto.

“Attualmente ne ospitiamo 25 – racconta suor Emmanuel – sono mamme con bambini, ma c’è anche una nonna e una zia. Rispetto alle donne africane, queste ospiti nutrono un rapporto di immediata fiducia nei nostri confronti: a pesare sulle prime, un passato fatto di traumi legati alla tratta di esseri umani che difficilmente permettono ad una donna di affidarsi di nuovo a sconosciuti. Con le ospiti africane la fiducia era un elemento da conquistare, in questo caso no. Ma in ogni condizione ci siamo messe alla prova per costruire un percorso, un rapporto. C’è da dire – ammette la suora, sorridendo – che usiamo molto il Google Translator per comunicare più facilmente”.

Mentre attraversiamo i mille ambienti che scandiscono la vita di Casa Rapahel, dalla zona giorno, con tanto di orto, alla zona notte, si ha l’impressione di attraversare un’inedita e sorprendente cittadina nella città. Sull’uscio di una delle immense stanze, adibita allo stoccaggio di abiti, incrociamo Maria Gabriella Zanone, volontaria. Si presenta come la “Trovarobe”, perché “in quarant’anni di lavoro e di volontariato in strada ho sviluppato tantissime conoscenze e so come e dove trovare quel che serve”.

Alle sue spalle pile di vestiti, scarpe, coperte, lenzuola impilate con cura su scaffalature “trovate gratis in poco meno di un’ora dalla richiesta che ho fatto sui social”, sottolinea. Maria Gabriella e gli altri volontari, ospiti compresi, hanno riorganizzato quello spazio sottosopra in meno di due settimane, perché a Casa Raphael funziona così: tutti lavorano per tutti. Ma c’è di più, sottolinea la volontaria: “Quando percorri questi corridoi, vedi le stanze semiaperte, i bimbi che entrano ed escono da un’ambiente all’altro, senti ridere, incontri donne affaccendate o impegnate a parlare tra loro. Qui sta nascendo una piccola società: non è una tappa di un viaggio, ma un piccolo villaggio”.

E gli ospiti diventano davvero parte integrante di questa grande famiglia allargata e multietnica: “Ieri abbiamo festeggiato i 38 anni di una delle persone che abbiamo accolto, Jan, un cittadino slovacco – racconta suor Emmanuel – Lo abbiamo fatto grazie alla torta preparata da un’altra ospite ucraina, Victoria, che sa fare ottimi dolci. Si è impegnata tutto il pomeriggio e la sera abbiamo fatto festa tutti insieme”.

Jan è proprio lì, accanto a noi, impegnato a scaricare pacchi di abiti donati nella stanza magazzino, e conferma: “È stato il primo compleanno in 38 anni di vita festeggiato con una torta. È stato bellissimo”. Spostandosi in questo particolare “condominio” non è difficile trovare un costante viavai nell’orto collettivo, patrimonio verde del quartiere, o far due chiacchiere nell’ampio cortile mentre si stende il bucato, o sentire un divertito vociare provenire dalle cucine dove, alle 11, si comincia a preparare il pranzo per tutti. Così come non è strano veder sfrecciare un bimbo in monopattino tra i corridoi, diretto nel grande “salone relax”, pieno di libri e giochi. Capita persino di sbucare all’improvviso in una piccola aia, con tanto di galline che regalano ogni giorno ottime uova.

Casa Raphael non è solo mura, ma vite che si intrecciano per diventare porto sicuro le une per le altre. In un’altra stanza incontriamo Allegra Traverso, anche lei volontaria, alle prese con l’organizzazione dei corsi di italiano: “Affrontiamo un’emergenza alla volta, una priorità alla volta – dice mentre gioca con il suo taccuino – Una ragazza di 25 anni, che ha esperienze di didattica, si è offerta di seguire le ragazze della sua fascia d’età. Un’altra ha donato un video proiettore con uno schermo gigante dove proietteremo lezioni di italiano, ma anche cartoni animati. Qui – ribadisce – tutti danno una mano, dal signore indiano, alla ragazza cubana. Quel che succede tra queste mura è l’esempio di un’accoglienza a 360 , quella che insegna nuovamente a far parte della famiglia umana”.

Ma cosa succederà di questo piccolo mondo moderno dal prossimo 2 novembre, se la sentenza di sfratto diventerà definitiva? “È una domanda a cui non so rispondere – ammette dopo un lungo sospiro suor Emmanuel – Noi suore continuiamo a dare la nostra vita quotidianamente. L’affetto sempre dimostrato dal quartiere è un segnale chiaro che la nostra è la strada giusta. Ci rimettiamo nelle mani del buon Dio, della nostra presidente e del nostro avvocato. Continueremo a bussare a varie porte, nell’attesa – conclude – che qualcuna si apra”.

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