Savoca. Tra mummie e cinema

Arte, Cultura & Società

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Savoca (Messina) è un nido d’aquila sui Peloritani, poco meno di duemila abitanti sparsi in nove frazioni delle quali la più popolata è Rina con circa 500 anime e la meno è Rogani che di residenti ne conta 13. Paese d’arte, di cinema ma soprattutto il paese delle “mummie”.

Conobbi Savoca mentre cercavo notizie da spedire alla Gazzetta del Sud di Messina. Mi avevano detto che lassù c’erano le mummie, impossibile quindi non andarci. E via, col mio amico Pancrazio, sulla mia Lambretta 150, 4 marce a motore centrale, una bomba, ed fu proprio perché “bomba” che quel giorno, causa “brecciolino”, finimmo a terra in una semicurva salendo, io lì e lui qualche metro più avanti con una mano ancora a stringere il sellino posteriore. Entrambi a chiederci, “funziona ancora la moto?”. Funzionava, a rimanere ferito fu l’illusione di credermi Libero Liberati.

 Nell’emeroteca della gazzetta del sud, questo particolare non c’è tra i tanti articoli che il paese mi ispirò. Fui il primo ad accorgermi di Savoca in modo organico, a parte Sciascia che ci fece solo una puntata, gli altri mi seguirono. L’archivio ne fa fede.

Le mummie erano nella cripta del convento dei cappuccini, dove ancora sono. Il frate che ci accompagnò era Padre Anselmo da Savoca.

PADRE ANSELMO

Il religioso era un sacerdote cappuccino innamoratissimo del suo paese, Savoca, e del suo Convento. Aveva capito che quei primi anni sessanta del secolo scorso potevano essere un trampolino di lancio per quei centri che avevano una propensione turistica. Taormina era ed è relativamente vicina. Quelli erano gli anni del festival del cinema, del Casinò, delle rutilanti notti brave nella Perla dello Ionio, e, quindi, sperava fare splendere Savoca di luce indiretta, ove si fossero trovate le giuste credenziali da fare valere. In tal senso, le credenziali giuste, Savoca, le ha sempre avute tanto che oggi, a distanza di una vita rispetto quei momenti, il paese è stato inserito nella lista dei borghi più belli d’Italia. Il paese ha  visto il passaggio di romani, bizantini, arabi e normanni. E’ stato al centro della storia religiosa della zona. E’ ricco di ricordi di un tempo, quali il Castello Pentefur, ormai diroccato, la porta della città nel quartiere San Michele, le rovine della Sinagoga, palazzi nobiliari, la Curia e il carcere e, tanto per citarlo, il moderno bar ove si sono girate alcune scene del Padrino di Francis Ford Coppola. Ma questo sessant’anni fa padre Anselmo non lo poteva immaginare.

Con un “pedigree” di tal fatta, chi non avrebbe dato una mano al cappuccino per far conoscere Savoca? Io, nel mio piccolo, la diedi. Ma per quanto ci mettesse l’anima, per quanto avesse ripulito e riattato celle in disuso da decenni al fine di ospitare turisti, il turismo in quegli anni non decollò. Era felice se vedeva arrivare un pullman, se poteva spiegare il miracolo del velo. Si narra, infatti, che un tempo, il paese era un grande centro dedito all’allevamento dei bachi da seta. Un anno, una donna fece un voto, se l’annata fosse stata abbondante di bozzoli e quindi apportatrice di fortuna con un ottimo raccolto, si sarebbe impegnata a donare una tovaglia di seta per l’altare maggiore della Chiesa del Convento. L’annata fu veramente buona ma la donna dimenticò la promessa. L’anno successivo, i suoi bachi, invece di chiudersi nei bozzoli, si unirono e, con la bava realizzarono un velo di seta grezza naturale.  Il velo è conservato ancora oggi.

Al tempo cui mi riferisco, nel convento vivevano ormai solo due frati. Chiesi più volte a padre Anselmo di poter conoscere l’altro. Fui presentato, non lo avessi mai chiesto. Mi presentai: “Buon giorno padre, mi chiamo Rinaldi e sono il corrispondente delle Gazzetta del Sud. Mi farebbe piacere..” non finii la frase che mi fu risposto: “Lei può essere anche il corrispondente dell’Osservatore Romano, ma io non ho nulla da dirle. Buon giorno”. Questi era padre Basiglio Gugliotta da Naso, a nominarlo come vivo non mi apparve in carattere con il serafico poverello d’Assisi, ma anche Padre Pio non era sempre di buon umore per non parlare poi dello scienziato cappuccino padre Gemelli la cui carità cristiana lanciò alle ortiche nel giudicare il santo di Pietrelcina. In ogni caso, però, bisogna dare atto a padre Basilio d’essere stato un attento studioso della storia dei luoghi. Ne è imperitura prova la sua disamina a proposito della derivazione del nome Savoca.

In origine, narra una leggenda popolare e poco verosimile il centro urbano, Pentefur, fu fondato da cinque ladroni (pente dal greco cinque e fur dal latino ladro) evasi dal carcere della vicina Taormina. Qui avrebbero trovato un ottimo rifugio da cui partire per le loro scorribande. Più credibile la versione  di padre Basilio da Naso e padre Giampietro Rigano da Santa Teresa di Riva, religiosi che per decenni dimorarono nel convento del paese. Sostennero, infatti,  che i Pentefur fossero state un gruppo di persone, forse di origine fenicia, qui giunti dalla città di Phoinix, in un periodo in cui la vita sul lungo le coste dello Ionio non era più sicura e agevole. Il toponimo Pentefur deriverebbe quindi dal patronimico punico Punctifur che stava probabilmente a indicare il nome di un eroe o capopopolo o di un qualche gruppo sociale. A dire il vero non è l’unica tesi in proposito ma è molto accreditata.

LA CRIPTA E LA MUMMIFICAZIONE

Quando padre Anselmo aprì la botola, ricevemmo un afflato di aria non proprio indicata per i malati di polmoni, e scendemmo. Alla vista si appalesò una stanza con vari corpi rinsecchiti, posti in fila, in piedi, e racchiusi in nicchie, ovvero conservati in bare. La più vecchia risaliva al 1776 e la più recente al 1876. Oggi come allora, i corpi sono quelli di Pietro Salvatore nobile del posto e di Giuseppe Trischitta. Le fogge degli abiti rivelano la loro appartenenza al ceto più abbiente del luogo, infatti la pratica di mummificazione naturale era piuttosto costosa e, come ci fu spiegato, non avveniva in quel posto, bensì presso la chiesa madre del paese, intitolata a santa Maria Assunta in Cielo, ove nella sottostante cripta, ubicata sotto l’abside, è presente il “Putridarium”, luogo deputato, nei secoli passati, alla pratica della mummificazione delle salme.

Per accennare alla pratica della mummificazione naturale, molto usata nel meridione d’Italia, facciamo ancora riferimento agli studi del colto padre Basilio autore di uno studio inedito secondo il quale a ” Savoca, la mummificazione è il prodotto di un processo semplicissimo, di un esporto per assorbimento degli umori effettuato da microscopiche fungaie di Hypha “. A detta di quest’autore l’essiccazione completa dei cadaveri richiedeva un periodo di sessanta giorni alla fine del quale la pelle che ricopriva i corpi diventava “incartapecorita e sonora come quella di un cembalo.”

 Più in particolare in paese sotto la chiesa Madre (come già accennato) vi è “un’ambiente circolare molto ventilato a causa delle numerose feritoie esistenti nelle pareti, esso presenta dei loculi provvisti di sedili sui quali venivano sistemati i cadaveri. Attraverso dei fori presenti nei sedili di pietra e di un sistema circolare di scolo, si provvedeva a convogliare gli umori e i liquami in una grande fossa di raccolta adiacente. I cadaveri venivano progressivamente trattati con unguenti ed essenze, affinché i tessuti non perdessero elasticità. Un’ulteriore fase del procedimento doveva consistere nel riempimento della cavità toracica, privala degli organi interni, con paglia o altre fibre vegetali, allo scopo di conferire alla mummia l’aspetto originario”.

Al termine  del procedimento il corpo mummificato era rivestito ed esposto in cripte o cappelle funerarie. Tale pratica, inizialmente riservata ai personaggi ecclesiastici, si diffuse tra i nobili ed i ricchi del tempo e raggiunse il suo apice tra il diciassettesimo e il diciannovesimo secolo, fino a quando l’editto napoleonico di Saint-Cloud, applicato in Italia il 5 settembre 1806, dispose il divieto di seppellire nelle chiese. Da questa data in poi iniziò il decadimento della mummificazione e la sua definitiva sparizione intorno alla fine del diciannovesimo secolo.

IL CINEMA

Ciò che sperava il buon frate non si è completamente avverato. I visitatori qui non arrivano a frotte, non si contendono le celle riattate a piccole stanze per l’accoglienza, il refettorio del convento non brulica di personale addetto al servizio ai tavoli né la cucina di cuochi. E’ arrivato il cinema per girare alcuni esterni del Padrino al piano terra del palazzo Trimarchi, è arrivata la pubblicità con le discusse fotografie dell’azienda di abbigliamento Kenar Enterprises Ltd per una linea di moda, o con la birra Moretti. Ma niente turismo di massa. Qui è un avvicendarsi di turisti di nicchia. Il problema è la lontananza dal mare. In estate soprattutto, la Sicilia è sole, buona cucina e mare; soprattutto mare. Se Letoianni, Giardini, sono decollate in un primo tempo grazie alla vicinanza di Taormina, hanno poi brillato di luce propria, grazie sempre e solo al mare, alle spiagge sullo Ionio. L’entroterra non può rivaleggiare con le zone rivierasche, in termini di turismo stanziale, il resto è mordi e fuggi. Chi ama la montagna preferisce le Dolomiti.

Quando torno in Sicilia, non faccio mai una puntata a Savoca. Sarà perché non ho più la Lambretta 150, 4 marce con motore centrale; sarà  che non mi sento più Libero Liberati e la polvere del tempo non mi permette più d’essere un centauro.

Sarà quel che sarà. Ma poi, che ci vado a fare? Savoca la conosco, non c’è più padre Anselmo e forse non c’è neppure più il brecciolino.

Giuseppe Rinaldi

girinaldi@libero.it

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