Non lasciamo cadere l’indifferenza sull’Afghanistan

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Va fermata la logica dei morti ammazzati per ragioni politiche o religiose per affermare il diritto alla vita, alla pace ed all’autodeterminazione. 

Da molti mesi ormai Kabul vive nel terrore, i violenti  atti terroristici hanno paralizzato la città:  bombe, autobombe, attacchi coordinati, decine e centinai di morti. Si ha netta la sensazione che ormai nessuno si stupisce più di tanto: da più di 16 anni siamo abituati a pensare all’Afghanistan come a un paese in guerra. La  spietata e cruenta offensiva rappresentata  da una serie di attentati, compiuti, per la prima volta congiuntamente negli ultimi giorni, sia dai talebani che dallo Stato Islamico ( ISIS), è un fatto del tutto nuovo che sta preoccupando molti governi occidentali. Non si conoscono con chiarezza le cause che hanno scatenato gli attentati né gli obiettivi che si vogliono raggiungere con questa strategia di odio e di vendetta nelle quali sono state uccise in poche ore oltre 150 persone, tra cui molti civili, ma si possono fare alcune ipotesi.

I due attentati recenti più violenti sono stati fatti dai talebani: il 21 gennaio un gruppo di miliziani ha attaccato per più di 12 ore il più grande hotel di Kabul, l’Intercontinental, uccidendo 22 persone; sabato 27 l’esplosione di un’ambulanza in un’area molto affollata della città ha ucciso 103 persone. Entrambi gli attentati sono stati molto cruenti e “mediatici”, se si può dire così. La stragrande maggioranza dei giornalisti occidentali in Afghanistan, per lo più statunitensi, si sposta poco fuori da Kabul, anche per ragioni di sicurezza: fare un attentato nella capitale significa sfruttarne la copertura mediatica, come ha affermato il giornalista Jason Burke sul Guardian.

Per spiegare però l’anomala intensità della violenza bisogna guardare altrove: bisogna cercare di capire com’è cambiata negli ultimi anni la guerra in Afghanistan tra forze afghane e loro alleati occidentali da una parte,  talebani ed ISIS dall’altra. I recenti attacchi terroristici, ha scritto Max Fisher sul New York Times, avevano l’obiettivo di minare la stabilità del governo afghano, il cui presidente, Ashraf Ghani, è un importante alleato degli Stati Uniti. La logica è quella tipica di un gruppo di insurgency: compiere attacchi continui e costanti per svilire e indebolire le istituzioni del governo locale, scoraggiando e demoralizzando  le forze esterne a proseguire il loro impegno militare nel paese; visto tra l’altro  che tale impegno con il sacrificio di molti soldati non ha prodotto i risultati che si attendevano. I metodi usati però sono quelli di un gruppo terroristico: attacchi indiscriminati e continui contro la popolazione civile, con l’obiettivo di creare instabilità e caos.

L’impressione è che questa strategia sia stata adottata dai talebani per trovare rimedio all’aumento delle forze statunitensi in Afghanistan, deciso dall’amministrazione Obama e confermato da quella di Trump. Gli attacchi aerei della coalizione, infatti, sono efficaci in molte zone del paese ma non altrettanto a Kabul, una città dove non c’è un governo nemico da destituire. Qui i talebani hanno trovato una certa libertà di manovra e sono stati capaci di creare cellule terroristiche pronte a compiere attacchi come quelli degli ultimi giorni. La pericolosità dei talebani è notevole se si considera un’altra circostanza: i legami che questi hanno intrecciato con importanti terroristi afghani, come la rete Haqqani, gruppo estremista associato ad al Qaida. La rete Haqqani è una parte importante in tutta questa storia perché è al centro di un’enorme polemica di cui si è parlato molto negli ultimi giorni. Secondo il governo afghano, dietro all’aumento delle violenze degli ultimi giorni ci sarebbe il Pakistan, accusato ormai da anni di dare protezione agli estremisti, tra cui proprio i talebani e la rete Haqqani.

Il governo del Pakistan, secondo molti osservatori internazionali, avrebbe permesso ai talebani di compiere gli attentati per vendicarsi della sospensione di aiuti militari per 2 miliardi di dollari decisa dall’amministrazione di Donald Trump. La situazione della sicurezza in Afghanistan è complicata ulteriormente dalla presenza dello Stato Islamico, che qui e altrove è in competizione diretta con al Qaida (e quindi con i talebani) per la supremazia del mondo jihadista. Nell’ultima settimana l’ISIS ha rivendicato due attacchi: il primo, il 24 gennaio, contro una sede di Save the Children a Jalalabad, e il secondo lunedì mattina contro un’accademia militare di Kabul. Come si è visto in altre zone dell’Asia e del Medio Oriente, l’ISIS diventa più efficace e pericoloso quando può agire in un paese senza un governo stabile, dove ci sono già caos e violenza (è successo così in Iraq, in Siria e in Libia). L’impressione è che in Afghanistan nessuno stia davvero vincendo o perdendo e riuscire a fare un accordo di pace sembra un sogno impossibile e irrealizzabile, una speranza da spegnere ancor prima che venga accesa. E la guerra continua con i suoi morti senza volto, senza occhi e senza parole.

La falsa ambulanza imbottita di esplosivo usata per seminare morte nel centro di Kabul è l’emblema di un terrorismo «malvagio», come ha sottolineato la stessa Croce Rossa, che non si ferma davanti a nulla nella sua ottusità distruttiva. La rivendicazione ha poi certificato che la responsabilità dell’attentato, uno dei più sanguinosi degli ultimi anni, è dei talebani, i ribelli islamici che, scacciati dal potere dall’invasione americana del 2001, non si rassegnano al nuovo assetto statale dell’Afghanistan. In un Paese martoriato e a lungo occupato, dove l’Occidente ha giocato una difficile partita in cui la posta in gioco era l’«esportazione della democrazia», la recente escalation di attacchi e di vittime potrebbe dare una (superficiale) impressione che tutto sia stato vano, inutile. Che le guerre non portino mai nulla di buono è una constatazione indiscutibile, che una nazione lacerata da secolari rivalità tribali e religiose (legate a differenti interpretazioni dell’islam) non possa trovare una sua strada nella modernità in pochi anni è un fatto altrettanto certo.

Quando i talebani – educati nelle madrasse del Pakistan, sovvenzionati dai sauditi e indirettamente aiutati dagli americani contro Mosca – presero il potere dopo il ritiro degli occupanti sovietici, a metà degli anni Novanta, imposero un regime illiberale ispirato alla più ferrea sharia, che vietava persino televisione, cinema, musica e le altre arti, oltre a segregare le donne, impedendo per loro l’istruzione oltre i dieci anni di età. L’avere dato ospitalità e basi ad al-Qaeda, che dall’Afghanistan progettò l’attacco alle Torri Gemelle di New York, fu ciò che provocò l’intervento Usa. Senza quell’evento scatenante, è probabile che il Paese sarebbe rimasto chiuso e isolato ancora per un certo periodo. Ma la storia non si fa con i “se”. Le mission internazionali seguenti alla caduta del regime hanno cercato di ripristinare sicurezza e vivibilità puntellando il governo insediato da Washington. Anche l’Italia continua a fornire un contingente, che presto passerà da 900 a 700 unità. Abbiamo visto cadere negli anni oltre 50 nostri uomini, impegnati in azioni che pur restando militari hanno contribuito ad una sia pur parziale ricostruzione materiale e civile del Paese.

Molto cose, però, non hanno funzionato nello sforzo di rimettere l’Afghanistan sulla via dello sviluppo e della pacificazione: ambiguità ed esitazioni, scelte inappropriate e l’inevitabile marchio sugli “invasori stranieri” non hanno permesso di fare dell’autorità centrale un nucleo autorevole ed espansivo. D’altra parte, non si può non rilevare come la guerra civile interna sia una dinamica cui è impensabile opporre solo altre armi, chiunque le impugni. La soluzione di un negoziato con i talebani moderati che, dopo un’iniziale e giustificata ripulsa, era sembrata praticabile si è presto arenata, anche per il ruolo poco chiaro del Pakistan, vicino ingombrante e poco interessato a un equilibrio che non si concretizzi in un proprio vantaggio. Oggi i talebani, in competizione con una crescente presenza del Daesh, hanno potuto riavvicinarsi alla capitale e ai palazzi del potere a motivo della minore pressione delle forze governative, dimostratesi incapaci di diventare un esercito affidabile ed efficiente. La maggioranza degli afghani non vuole tornare al regno del mullah Omar, ma molti probabilmente guardano con fastidio alla presenza di truppe americane ed europee (a volte responsabili di errori ed eccessi nelle lotta alla guerriglia) e sperano che un Afghanistan libero da interferenze possa trovare una propria stabilità. Quello che si può, purtroppo, prevedere a breve termine è che gli attentati e le vittime aumentino.

Nel 2016, i civili uccisi sono stati circa 3.500, molti i bambini ed anziani, un quarto dovuti ai soldati regolari afghani, che nello stesso periodo hanno contato settemila caduti in combattimento (numeri inaccettabili, ma si pensi che l’anno scorso le vittime in Messico della guerra narcotrafficanti-Stato sono state quasi 30mila). Dopo l’inizio del disimpegno militare voluto da Obama, anche Trump considera l’Afghanistan un teatro minore e nessuno degli alleati sarebbe disposto a prendere il ruolo degli Stati Uniti. Non si tratta, però, di chiedersi nuovamente se  vale la pena “morire per Kabul”. Di fronte al terrorismo che odia e uccide, pur lontano dai nostri confini, non è possibile voltarsi semplicemente dall’altra parte. L’Afghanistan, dove siamo presenti sul campo, deve tornare  ad essere problema prioritario e non più rinviabile nelle agende delle diplomazie  delle nazioni che hanno più voce in capitolo per tentare un rilancio dei colloqui per la riconciliazione, nella dolorosa consapevolezza che aiutare chi, in gran misura, non vuole collaborare è sempre una impresa titanica. Occorre fare uscire dalle ambiguità, dalle ipocrisie e dal doppiogiochismo le nazioni confinanti e non, che proclamano mille volte al giorno d’essere alleati sinceri ed affidabili ma poi sempre pronti a remare contro.

Giacomo Marcario

Comitato di Redazione de “ Il Corriere Nazionale”

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