Un religioso signore scrive sul blog “Come Gesù”: «Una cosa è decidere se e quando un bambino deve morire, altra cosa è accettare la sua morte, quando arriverà, facendosi così compagni del suo destino… i giudici inglesi rischiano di giudicare impropriamente il futuro, dimenticando che, fino a quando il trattamento è proporzionato alle esigenze biologiche dell’organismo (come una ventilazione che ossigena polmoni incapaci di respirazione), interromperlo significa non già accettare la morte del paziente, ma provocarla intenzionalmente».
Il bambino in questione è il bambino Alfie Evans. «I giudici scrivono che “è opinione unanime dei dottori che hanno esaminato” il piccolo che “quasi tutto il suo cervello è stato distrutto” anche se “nessuno sa perché”, e ciò fa sì che “Alfie non possa respirare, mangiare o bere senza trattamenti medici sofisticati” e che non c’è speranza che possa migliorare. I giudici hanno “esaminato meticolosamente” le prove» (SIR 20 aprile 2018).
E allora togliamoci gli occhiali deformanti: “Accettare la sua morte, quando arriverà”. In realtà la sua morte non è accettata e per questo si vuole tenerlo in vita per forza ricorrendo a sofisticate apparecchiature. E ancora: “Interrompere il trattamento significa non già accettare la morte del paziente, ma provocarla intenzionalmente”. Come si può affermare di provocare intenzionalmente la morte, quando prima intenzionalmente è stato impedito che avvenisse? A molti, forse a troppi, sfugge che i medici inglesi non devono fare qualcosa per far morire il paziente, ma devono smettere di fare ciò che stanno facendo per impedirgli di morire. I credenti, se non avessero pregiudizi, dovrebbero non impedire al piccolo di andare alla casa del Padre. Ma è la vita che conta, la vita a tutti i costi.
Renato Pierri