Il Mediterraneo e la sua coltura agricola, un antidoto contro le invasioni barbariche

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Simone De Rossi 

Vorrei cominciare a parlare di Mediterraneo e di Agricoltura, partendo, sotto alcuni aspetti, da lontano: dalla dieta mediterranea che nel 2010 l’UNESCO inserisce nella lista dei patrimoni culturali immateriali dell’umanità, individuando come Paesi di riferimento Italia, Marocco, Spagna e Grecia a cui dal 2013 si sono aggiunti Cipro, Croazia e Portogallo. Parlare di dieta mediterranea significa parlare di una antichissima comune cultura dell’alimentazione dei popoli che vivono sulle rive del Mediterraneo e attraverso il cibo sottolineare l’importanza dell’agricoltura come fattore comune che unisce questi popoli, fin dalle antiche civiltà che hanno popolato il più grande mercato economico e culturale dell’antichità: il mar mediterraneo.

Produzioni millenarie e secolari caratterizzano questa agricoltura, supportata da un grande areale produttivo, caratterizzato da un clima favorevole e da una ricca biodiversità che assicura una varietà produttiva che non ha eguali nel mondo: olivo, vite, creali, ortaggi, frutta, legumi, formaggi,

Lo strettissimo legame tra agricoltura ed alimentazione e tra la gestione del suolo e lo sviluppo agricolo, tende da molti ad essere trascurato, quasi nascosto. Un Paese si caratterizza dalla sua cultura, dalla sua alimentazione, dalla sua biodiversità, dalla sua tradizione alimentare e capacità di sostenere e sviluppare un agroalimentare competitivo, nel portare l’immagine del proprio paese nel mondo. L’Italia in questo è maestra. Non c’è futuro per un Paese se non c’è sviluppo agricolo ed agroindustriale,

Tutto questo non può che suscitare un senso istintivo d’identità militante verso questo essere Paesi Comuni nella storia, nella gestione del cibo e del suolo; Paesi con relazioni antiche che sembrano apparire una ideale comunità europea diversa, più solidale, più uguale nelle culture dei popoli, più simili nella loro gestione del terreno e del cibo e attraverso questo, magari, anche di un possibile modello sociale.

Per chi come me si occupa in questi anni di Politiche agricole comunitarie appare sempre più evidente come l’Unione Europea sia caratterizzata da modelli agricoli molto diversi: per clima, per gestione del suolo, per tipologia di produzioni, per ricchezza di biodiversità, per cultura. Un’Europa che parla di mercati e di gestione coerente delle risorse ambientali e della produzione agricola, mettendo sul tavolo, il peso delle proprie economie industriali e il valore del loro PIL. La nostra Europa deve cambiare passo, non deve ascoltare con ossessiva ambizione, le sirene di un mercato che tende a non riconoscere le diversità e le specificità che poi sono la vera ricchezza dei 28 Paesi che compiono insieme un percorso di convivenza economica e solo in parte culturale.

Sogno una Unione Europea più attenta a costruire una propria identità culturale, smarcandosi molto di più dalle egemonie economiche, che non dimentichi mai che siamo stati il territorio, culla della storia e dell’arte ma che ha anche  prodotto due guerre mondiali in una secolo e una divisione contrapposta tra paesi occidentali e dell’est che è durata cinquant’anni.  Non posso che ripresentare nuovamente la personale preoccupazione per una Europa guidata dai PIL, da Paesi che sembrano non perdere la loro predisposizione culturale all’egemonia e che pensano di imporre un modello di relazione e di sviluppo della nostra Europa sulle loro caratteristiche e sulle loro esigenze. E’ un percorso scivoloso.     

Quando poi leggiamo ed apprendiamo che si sta discutendo di un trattato di libero scambio tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti, il famigerato Ttip, per chi come me crede che la nostra agricoltura sia una eccellenza mondiale, che il modello mediterraneo sia una culla di cultura e di biodiversità produttiva, di colori, tradizioni, arte e sapori, non posso che farmi venire in mente un film: l’invasione degli ultra corpi.

In cosa consiste questo accordo sul libero scambio denominato Ttip? Una sostanziale deregulation negli scampi commerciali tra Stati Uniti ed Europa, Un accordo che riguarda molti settori che permetterebbe di superare barriere doganali basate su differenze normative e/o di omologazione, che rappresentano un inutile aggravio in termini di tempo e denaro. Una sostanziale riscrittura delle regole di mercato, controllate da norme e tribunali specifici e speciali, in grado di creare un modello commerciale che governi una enorme area di mercato con una ridefinizione degli standard dei prodotti e le regole degli appalti. Un matrimonio tra il ricco mercato americano e l’avvenente mercato europeo. Di questo il Presidente USA è venuto a parlare qualche giorno fa in Europa. Vorrebbe concludere prima del uso mandato questo storico accordo, altrimenti se ne parlerebbe almeno nel 2020, al termine delle stagioni elettive in Francia Germania ed Italia. Credo, per fortuna che non ci siano le condizioni per chiudere neanche in forma parziale tale accordo. Questa per me è una buona speranza. Ho sentito imprenditori agricoli vedere con favore questo possibile sviluppo, perseguendo la logica dell’equazione per loro semplice: più mercato, maggiore vendita di prodotti.

L’ipotesi di accordo Ttip e il modello commerciale proposto rimodula l’identità dei prodotti certificati europei (DOP, IGP, ecc.), di fatto gli USA non riconoscerebbero le tipicità europea, dove la tipicità è diffusa (Italia, Spagna, Francia ,ecc.) questa posizione è inaccettabile.

Molti imprenditori potrebbero essere affascinati dalla creazione di un mercato di grandissime dimensione con regole proprie, ma la domanda è sempre la stessa: alla nostra Agricoltura serve? Aiuta il nostro mady in Italy?

Ora, carissimi lettori di Ninte di Personale noi siamo cresciuti in un Paese fortemente condizionato dalla cultura americana: cinema, moda, musica, televisione e anche molto altro, ma certamente non siamo stati condizionati da un punto di vista della cultura alimentare e della nostra grande cultura agricola. Siamo rimasti fortemente ancorati alla nostra qualità, alla nostra tipicità, ai nostri sapori. Anzi ne abbiamo fatto un elemento distintivo su cui facciamo la differenza. Stiamo resistendo agli OGM e vediamo con simpatia e positività il biologico diffuso.

Dobbiamo far capire ai nostri imprenditori agricoli che questa equazione, più mercato più profitto, non è la formula magica che risolve i problemi delle nostre imprese. Le economie agricole dell’Europa hanno solo una opportunità, differenziare con la qualità il prodotto, utilizzare la grande e secolare capacità di trasformare i prodotti agricoli. Se vogliamo usare il latte bovino come esempio, possiamo dire oggi, con il prezzo ai minimi storici, che  non erano i limite delle quote a condizionare il mercato ma una oggettiva saturazione della produzione in Europa tra domande ed offerta. Più produzione minor prezzo, questa è una equazione di mercato. Qualcuno pensa che andremo a vendere il latte negli USA? Forse sarà il contrario. Il latte USA, ha gli stessi standard di qualità del nostro? Quello che certamente gli Stati Uniti non hanno sono i nostri formaggi di eccellenza e questi prodotti, come molti altri, il loro mercato ce l’hanno già.

La nostra splendida agricoltura ha bisogno di organizzazione di filiera, di piattaforme agroalimentari capaci di portare i nostri prodotti all’estero in forma costante e organizzata, di una politica di migliore aggregazione della produzione e della trasformazione che specie al Sud rappresenta la vera sfida su cui spendersi per competere con tutto il mondo.

Non ci sarà mai un pistacchio buono come quello di Bronte in nessuna parte del mondo. DOP dal 2010.

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