Contrariamente a quanto prevede l’immaginario collettivo italiano, che tende – nonostante i recenti scandali – a vederla come un paese dotato di particolari virtù ecologiche, la Germania produce ancora una notevole quantità di energia bruciando carbone, il sistema peggiore dal punto di vista di inquinamento ed emissioni di gas serra. Ora si accinge a cambiare. Un articolo dell’Economist mostra l’altro lato della medaglia del passaggio a fonti di energia più sostenibili: il prezzo pagato dalle regioni più povere e dai lavoratori più deboli.

Problema del clima: il carbone bruno è il peggio

Sono arrivati, in giubbotti catarifrangenti e giacche a vento, battendo su tamburi e soffiando dentro fischietti sotto la pioggia scrosciante, lanciando una sfida in difesa della loro industria morente. Il 9 Settembre circa un migliaio di minatori e altri lavoratori sono arrivati ​​alla centrale a carbone di Schwarze Pumpe nella Germania orientale ad accogliere con un rumoroso benvenuto i partecipanti a una conferenza sul futuro della regione locale del Lausitz. Con una trovata intelligente hanno costretto chi voleva entrare a passare attraverso uno di due archi improvvisati, uno con l’indicazione “2030” e uno “2038”, in riferimento a due possibili date per la fine dell’uso del carbone in Germania. Chiunque passava sotto al primo veniva fischiato.

L’anno prossimo la Germania mancherà i suoi obiettivi di riduzione delle emissioni. Uno dei motivi principali è la sua perdurante dipendenza dal carbone. Nel mix di produzione dell’elettricità la quota legata al carbone bruno (lignite), il tipo più economico e inquinante, è rimasta la stessa per due decenni. Nessun paese ne brucia più della Germania. L’anno scorso il governo ha riunito una commissione che comprende politici, industriali, scienziati, attivisti e sindacati per tirarsi fuori dal problema.

Questo approccio è stato stabilito per garantire la condivisione di qualunque proposta fosse emersa. Il rapporto di 275 pagine della commissione, pubblicato a gennaio, impegna la Germania a porre fine all’uso del carbone entro il 2038 e promette sussidi per un valore fino a 40 miliardi di euro in 20 anni per le restanti aree di estrazione del carbone sul territorio nazionale. Revisioni periodiche determineranno quando le singole miniere dovranno chiudere, e i proprietari essere risarciti.

Questo compromesso, non ancora diventato legge, ha lasciato tutti un po’ insoddisfatti. Le aziende di servizi si lamentano per l’incertezza dei rifornimenti; le lobby commerciali temono l’aumento del prezzo dell’energia. Le peggiori rampogne provengono dagli ambientalisti, che vogliono anticipare la chiusura, per aiutare la Germania a raggiungere l’obiettivo di ridurre le emissioni del 55%, rispetto ai livelli del 1990, entro il 2030.

Un viaggio attraverso il Lausitz, dove viene estratto un terzo della lignite tedesca, aiuta a spiegare perché i lavoratori del carbone trovano la decisione difficile da ingoiare. Questa remota regione rurale, a cavallo tra gli stati orientali della Sassonia e del Brandeburgo, un tempo forniva alla Germania orientale il 90% della sua elettricità (oggi fornisce circa il 7% della potenza della Germania). Il paesaggio, altrimenti privo di caratteristiche particolari, è punteggiato dalle vaste miniere a cielo aperto da cui viene estratta la lignite e dai laghi che si formano quando vengono inondate quelle in disuso. I sostenitori della  squadra di calcio Energie, che ha sede a Cottbus, sostengono i giocatori con inni al carbone. Ma questo attaccamento sentimentale al carbone, osserva Johannes Staemmler dell’Institute for Advanced Sustainability Studies di Potsdam, è compagno della paura dei cambiamenti nata dalle devastazioni legate alla  deindustrializzazione che ha seguito la riunificazione tedesca nel 1990, quando la maggior parte delle miniere di Lausitz furono chiuse e decine di migliaia di persone hanno perso il lavoro (a questo proposito si può rivedere questo video ispirato al saggio Anschluss di Vladimiro Giacché, ndVdE).

Oggi nel Lausitz non ci sono grandi datori di lavoro oltre alla Leag, il gestore di proprietà ceca delle miniere e delle centrali a carbone della regione. I tre impianti Leag di Lausitz, tra cui Schwarze Pumpe, sono tutti tra i primi dieci produttori di emissioni di carbonio nell’Ue, ma forniscono anche 8.000 posti di lavoro ben pagati in una regione che di certo non se ne lamenta, e indirettamente migliaia di altri. Questi argomenti hanno aiutato i politici locali a garantirsi 17 dei 40 miliardi di euro promessi. I progetti su come spendere i soldi sono proliferati, comprendendo trasporti e infrastrutture mobili, investimenti in ricerca e sviluppo nonché la creazione di posti di lavoro governativi. Christine Herntier, sindaco di Spremberg e membro della commissione del carbone, ha molto a cuore la realizzazione di un impianto di idrogeno all’avanguardia a Schwarze Pumpe. Eppure anche lei sta perdendo la fiducia, preoccupata che i fondi federali vengano distribuiti in modo troppo scarso, irritata dal fatto che comunità povere come la sua debbano fornire cofinanziamenti e infuriata con gli ecologisti voltagabbana.

Quando alcuni anni fa la concorrenza straniera ha devastato l’industria solare tedesca, osserva Felix Ekardt, capo dell’Unità di ricerca sulla sostenibilità e la politica climatica di Lipsia, i politici hanno semplicemente scrollato le spalle e puntato il dito verso le forze del mercato. Ma le decisioni delle aziende private provocano meno risentimento di quelle politiche. “La gente non perdona lo stato se sottrae posti di lavoro“, afferma Jörg Steinbach, ministro dell’Energia del Brandeburgo. Due delle tre rimanenti regioni dove si estrae lignite si trovano nell’ex Germania orientale, dove le vecchie lamentele hanno trovato una nuova espressione politica. Nelle recenti elezioni statali, il partito populista Alternativa per la Germania (AfD) ha sgominato tutti nel Lausitz, dopo avere fatto una campagna elettorale contro le chiusure previste.

Steinbach rimane ottimista. “Ci sarà chi ci rimette“, dice, “ma non molti“. Due terzi dei lavoratori della lignite hanno già più di 45 anni, il che limiterà i licenziamenti forzati, mentre le competenze acquisite dai più giovani sono spesso trasferibili. Tuttavia, previsioni indipendenti hanno dimostrato quanto l’economia locale sia messa a rischio dalle chiusure. Nel Lausitz ci sono poche altre opportunità di lavoro, come nella zona di lignite della Renania. “Chi ha una buona formazione vedrà il suo futuro altrove“, sospira Wolfgang Rupieper, capo del Pro Lausitzer Braunkohle, un’associazione pro-carbone di Cottbus. Come altri, si lamenta degli sforzi previsti per mettere fine al carbone, quando le emissioni di altri settori, come i trasporti, si sono spostate pochissimo dal 1990.

Simili preoccupazioni hanno portato a un ampio pacchetto di misure di protezione del clima che il governo avrebbe dovuto svelare il 20 settembre. In primis ci si aspetta una qualche forma di tassa sulle emissioni, necessaria per garantire che lo stop al carbone riduca effettivamente le emissioni complessive. L’approccio della commissione, costoso e complesso, si adatta malamente a strategie di riduzione delle emissioni più efficienti. Tuttavia gli altri paesi che tentano di camminare in equilibrio tra la protezione del clima e la difesa delle economie che arrancano seguiranno da vicino l’esperimento tedesco.

Questo articolo è apparso nella sezione Europa dell’edizione cartacea sotto il titolo “La costosa uscita dal carbone della Germania”.