Sinistre contro lavoratori?

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di Canio Trione – Economista

Esiste, come ferita aperta, una grande questione politica attorno al lavoro e ai lavoratori. La profonda disaffezione della base lavoratrice verso i partiti di sinistra e verso i sindacati di cosa è sintomo? Cosa vogliono i lavoratori dopo aver avuto uno statuto e una legislazione migliore di ogni altra in Occidente? E come si intendono affrontare le immense questioni della precarietà e della disoccupazione figlie della tecnologia e della mondializzazione? Sono i lavoratori favorevoli alla conservazione di un modo di vita vecchio e quindi vedono con sospetto tecnologie e apertura delle frontiere? Oppure no, e si vogliono condannare a crescente disoccupazione celata dietro a pensioni e sussidi vari a vita?

Ogni gruppo politico di sinistra è chiamato a rispondere a queste domande. La questione riguarda anche tutti gli altri partiti, esistenti e futuri, che vogliono riscuotere la simpatia di questa parte dell’elettorato. Ma è anche una questione afferente all’economia tutta.

È di tutta evidenza che l’approccio conflittuale (quella che si chiamava la lotta di classe e che è il nocciolo delle sinistre) non è più di moda. Uccidere il datore di lavoro o anche solo danneggiarlo, non solo indebolisce proprio colui che dovrebbe garantire il presente e il futuro del lavoratore, ma impedisce la nascita di nuove imprese; infatti quella lotta di classe ha contribuito (assieme a fisco e credito) al nanismo aziendale che condanna l’Italia alla stagnazione e alla irrilevanza internazionale. Oggi assistiamo a legioni di lavoratori che difendono la propria azienda da espropri e chiusure anche se la esosità dei loro stipendi (assieme alla esosità di fisco e previdenza) è certamente concausa del dissesto aziendale e quindi dei loro problemi occupazionali. Vediamo che anche le banche devono licenziare e ridursi avvisando così che l’apocalisse sta per arrivare. Legioni di disoccupati emigrano nella speranza di trovare datori di lavoro più facoltosi di quelli autoctoni.  

Certamente il ruolo sociale del sindacato non è sostituibile ma è altresì evidente che le ricadute economiche fortemente negative di quel ruolo andavano previste ed evitate. Aver permesso al sindacato (che ha rilevanza nazionale) di entrare anche in imprese di medie e piccole dimensioni ha intimidito i piccoli imprenditori che appena hanno potuto hanno chiuso le loro impese o si sono delocalizzati o hanno tramutato l’impresa in società di capitali in modo da limitare i rischi per il proprio patrimonio. Quindi per il futuro il sindacato pur rimanendo a svolgere il proprio ruolo sociale nella grande impresa e nell’apparato pubblico, non deve entrare nelle imprese minori proprio per l’eccessivo peso che ha e quindi per il danno irreparabile che produce al funzionamento dell’economia.

Ma l’interesse primario di ogni lavoratore quale è? Cosa deve traguardare la politica per favorire o non danneggiare questa categoria?

Se chiediamo ad ogni aspirante lavoratore se preferisce avere un datore di lavoro solido e facoltoso oppure no, la risposta sarà sempre a favore del datore “ricco”. Quindi il lavoratore vuole che il proprio datore di lavoro sia “ricco”; quindi la politica deve fare di tutto perché si formi una categoria di imprese fortemente capitalizzate. Categoria di imprese che deve essere numerosa per permettere al lavoratore di trovare in tempi brevi una alternativa al proprio impego qualora lo perdesse e deve anche essere “forte”, cioè in grado di garantire presente e futuro al lavoratore onorando i propri impegni. Naturalmente si parla delle imprese minori cioè quelle che per la loro numerosità possono assorbire tutte le eccedenze di manodopera e, per la loro flessibilità possono crescere di molto; infine solo esse hanno pari forza contrattuale con il lavoratore e quindi garantiscono un rapporto di lavoro più equilibrato e quindi più “umano” di quello offerto dall’impresa maggiore.

Nell’ambito di un programma politico, questo tipo di approccio garantisce anche un’economia che riesca a crescere facendo crescere le proprie imprese e non come spesso si dice -specie da sinistra- di far crescere l’economia a spese del bilancio pubblico. Quindi i punti nevralgici della futura politica per un maggiore e migliore lavoro sono due: la centralità del rilancio della piccola e media impresa nell’intera economia e riequilibrio dei rapporti di forza tra impresa e sindacato con la estromissione categorica di quest’ultimo dalle Pmi. Non esiste altra ipotesi praticabile sia per le condizioni del bilancio pubblico sia per le dimensioni dei problemi sul tappeto.

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