Che cos’è la sindrome di Stoccolma e perché se ne parla nel caso di Silvia Romano

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Fonti investigative dicono che la ragazza si è convertita all’Islam durante la prigionia nelle mani dei terroristi somali di al-Shabaab. Potrebbe trattarsi di uno stato psicologico temporaneo che prende il nome da una rapina di molti anni fa finita in un modo bizzarro 

© POOL UFFICIO STAMPA MAE / AGF 
– Silvia Romano all’arrivo a Ciampino

Che cosa hanno in comune una rapina in banca del 1973, un duplice sequestro a Baghdad nel 2008 e un rapimento in Somalia nel 2018? Poco, se non il fatto che in tutti e tre i casi si è parlato di ‘sindrome di Stoccolma’.

Anzi il primo caso, la presa di ostaggi alla Norrmalms Kreditbanken nella capitale svedese, diede addirittura il nome allo stato psicologico osservato dal criminologo e psicologo Nils Bejerot, collaboratore della polizia durante la rapina, nel comportamento di tre donne e un uomo che dopo essere stati nelle mani dei sequestratori per 6 giorni difesero i loro carcerieri e mostrarono un comportamento reticente prima dell’inizio del processo. Si disse addirittura che una delle donne si fosse fidanzata con uno dei rapitori.

Il termine fu coniato da Conrad Hassel, agente speciale dell’FBI e ora viene usato per definire il rapporto di complicità che si sviluppa tra la vittima di sequestro e il suo rapitore.

Se ne è parlato anche per il caso di Silvia Romano, da quando è emersa la notizia, confermata poi dalla stessa ragazza liberata il 9 maggio in Somalia, della conversione all’Islam. Fonti investigative non escludono possa “trattarsi di una situazione psicologica legata al contesto in cui la ragazza ha vissuto in questi 18 mesi, non necessariamente destinata a durare nel tempo”. La sindrome di Stoccolma, per l’appunto.

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