Recovery Fund o Next Generation Fund? It is the same thing?

Economia & Finanza

Di

di Antonio Vox

Quello che era chiamato “Recovery Fund”, oggi si chiama “Next Generation Fund”.

La dizione sembra di buon auspicio.

Allora, da buoni osservatori, ci mettiamo all’opera per capire di cosa si tratti.

Si tratta di stanziare ben € 750 mld (€ 250 mld in prestiti e € 500 mld in sovvenzioni a fondo perduto).

Perbacco! Benissimo.

Una prima boccata d’ossigeno, a sostegno del tessuto produttivo del Paese che accusa oltre il 10% di perdita di PIL; anche se noi stimiamo che, solo per l’Italia, sia necessario un impulso immediato non inferiore ai € 300 mld.

Tuttavia, capiamo subito che il cambio di dizione non era un capriccio ma una “cosa pensata”.

Infatti, dentro il Next Generation Fund, “il Fondo grande”, per così dire, ci sono vari “Fondi più piccoli”, ciascuno con propria dotazione e propri obiettivi.

La proposta originaria da € 500 mld di Francia e Germania è inclusa con la dizione di “Recovery and Resilience Facility” (tanto per non dimenticare il vecchio “Recovery”), con una dotazione di € 560 mld; un po’ di più dei € 500 mld proposti dal duo franco tedesco ma non sono certo i tanto decantati € 750 mld.

Bisogna sempre verificare gli annunci di vittoria, soprattutto quelli riecheggianti.

Bisogna sempre stare attenti e svegli.

Tanto attenti e svegli che si scopre che prestiti e sovvenzioni del Recovery and Resilience Facility sono “condizionati alla realizzazione di riforme”.

Ma non servivano, quei soldi, per rilanciare la economia?

La risposta è scontata, come un refrain: “per rilanciare l’economia bisogna mettere mano alle riforme”.

Non importa che riformare è questione di lungo periodo: tempo che non si ha.

Non importa osservare che le riforme, se ben fatte (e questo è già un problema in sé), non rilanciano l’economia, ma creano lo scenario perché non ci siano intoppi al rilancio della economia, che dovrebbe viaggiare libera.

Infatti, è la libera iniziativa che rilancia l’economia.

Lo Stato imprenditore ha già mostrato la sua incapacità ad intraprendere e la sua tendenza a degenerare verso uno statalismo di maniera che, se da un lato crea indotto, dall’altro schiavizza lo stesso indotto rendendolo niente affatto autonomo: quando muore la mamma l’indotto sparisce.

Ecco perché, già qui, nascono seri dubbi sulla validità del “bazooka” della Unione Europea: perché c’è tutta l’impressione che quei soldi rimarranno allo Stato e ben poco sarà trasferito alla “economia reale”.

Lo Stato, fra l’altro, si sta chiedendo come spenderli: indizio sicuro di totale carenza di pianificazione e, soprattutto, di un disegno di ristrutturazione.

È qui il nòcciolo della questione.

Infatti, la vera domanda che si dovrebbe fare il cittadino è: chi sarà il beneficiario ultimo? Lo Stato o il Paese?

Sembrerebbe la stessa cosa ma, proprio, non è così!

La formulazione del New Generation Fund fornisce ampio margine e alibi per indicare, come beneficiario ultimo, lo Stato.

Procedendo nella nostra indagine, domandiamoci ora: “Da dove arrivano quei soldi?”.

Dal bilancio della Unione Europea al quale l’Italia contribuisce con circa € 56 mld.  

Dello stanziamento europeo per il Next Generation Fund, si è già fatta una ripartizione.

Sandro Gozi, europarlamentare di Renew Europe, al servizio di Macron, ci comunica (Agenzia AGI del 25 Maggio 2020) che all’Italia sono destinati € 172,7 miliardi; alla Francia € 38,7 mld e alla Germania € 28,8 mld per chissà quale burocratico calcolo.

La grande differenza dovrebbe indurre a prestare una qualche attenzione. Siamo forse più bravi? È meglio dubitarne.

Ma facciamo un po’ di conti.

Di quei € 172,7 mld, circa € 81 mld sono a fondo perduto mentre circa € 91 mld sono prestiti, con un tasso d’interesse che, per semplificare, poniamo a zero.

Di quei € 81 mld, circa € 56 mld sono già italiani e costituiscono la quota italiana di partecipazione alla EU.

Quindi, si troveranno in cassa € 81 mld, a fondo perduto, e € 91 mld, come prestito da restituire, magari senza interesse.

Gli € 56 mld, di contributo italiano al bilancio EU, provengono dalla raccolta fiscale (erogata dal popolo che lavora: chiamiamola, esemplificativamente, “economia reale”).

Quindi il sistema produttivo italiano, quello della economia reale, quello che paga con “soldi freschi” le tasse, quei € 56 mld li ha già pagati.

Il beneficio EU, quello a fondo perduto, si rivela dunque essere di € 25 mld. Poco ma utile.

Quindi, ora, due sono i problemi.

Il primo, quando arriveranno questi soldi, per quanto insufficienti: quando il Paese sarà già morto?

Il secondo è il vero problema: i soldi ci sarebbero e sono quelli sui quali tutti i commentatori e politici dedicano, enfaticamente, l’adorazione e l’attesa.

Il vero problema, infatti, della politica italiana, che ha il dovere di traguardare un nuovo rivoluzionario sistema economico finanziario, sociale e culturale del Paese, è se questi soldi           (€ 172,7 mld) andranno “veramente” alla “economia reale” (che ha già sborsato gli € 56 mld e dovrà sborsare gli ulteriori € 91 mld) e al Paese o rimarranno confinati nello Stato, con lo slogan “lo vuole l’Europa”.

Sfortunatamente, tutto fa prevedere che, da un lato si piange e si continuerà a piangere; dall’altro, la tentazione di scialare in nome del popolo e per il “bene del Paese” potrebbe essere fortissima.  

Sta tutto qui! È qui il nòcciolo della questione!

Ma, questa volta, dietro l’angolo c’è il disastro in attesa, come ha, in queste ore, denunciato Visco, il Governatore della Banca d’Italia, che è stato per niente rassicurante e ottimista.

Speriamo che questo governo apra bene gli occhi, si convinca che appare errato e sconclusionato il suo procedere e che adotti iniziative di forte ispirazione liberale.

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