A cento anni dal discorso turatiano Rifare l’Italia!

Politica

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Quel giorno Turati parlò a titolo personale «per la mia coscienza, per il mio Paese e per quello che fermamente credo essere essenzialmente, immutabilmente, il socialismo». Domani, 26 giugno, saranno trascorsi cento anni da quel celebre discorso, subito entrato negli annali nella storia politica nazionale sotto il titolo “Rifare l’Italia!”Su di esso l’ADL ha già pubblicato un importante saggio del professor Maurizio Punzo apparso in due puntate il 21 e il 28 maggio 2020. Il testo del discorso turatiano è stato riedito nella “Biblioteca di Rivista storica del socialismo” a cura del professor Giovanni Scirocco (Pavia), con una Presentazione di Paolo Bagnoli, che di seguito riportiamo per gentile concessione dell’Autore.

di Paolo Bagnoli 

È passato un secolo dal discorso che Filippo Turati tenne alla Camera il 26 giugno 1920, comunemente conosciuto con il titolo: Rifare l’Italia! Di esso, nel corso degli anni, sono state riproposte diverse edizioni.

    Si tratta di un intervento rilevante; praticamente un vero e proprio saggio sulla situazione dell’Italia a meno di due anni dalla fine della guerra; un testo che Turati aveva a lungo meditato e riflettuto e che espone alla Camera confermando di essere un grande oratore parlamentare: preciso, ragionatore, asciutto e documentato nell’argomentare, incisivo nel proporre, assolutamente antiretorico, talora elegantemente ironico. Il discorso può essere analizzato da angolature diverse, naturalmente. La lettura che, ancora oggi, ci appare come una delle più probanti è quella di Carlo Rosselli nel saggio che scrive alla morte di Turati (Filippo Turati e il socialismo italiano, “Quaderni di ‘Giustizia e Libertà’”, n.3, giugno 1932, pp.1-42). La si può compendiare nel seguente giudizio: “Egli non condivideva il giudizio di chi, considerando lo sfacelo della borghesia e la immaturità del proletariato a succederle, ne deduceva la fatalità della crisi.”

    Nello scenario devastato del dopoguerra italiano Turati non si limita a presentare una lettura di parte della situazione, ma delinea il ruolo dei socialisti – sicuramente di quelli raccolti nella componente “concentrazionista” – pronti a fare la loro parte per avviare un’azione di governo di un Paese da ricostruire per intero: moralmente, civilmente ed economicamente. Naturalmente, senza abdicare a niente di se stessi: della loro rappresentanza sociale e di quanto esprimono nel contesto generale della politica italiana.

    La guerra è stata vinta, ma l’Italia ne è uscita devastata e non è pensabile che essa possa rialzarsi riattivando canoni di governo tradizionali; quelli rappresentati da Francesco Saverio Nitti e da Giovanni Giolitti. Il dopoguerra segna, infatti, una frattura tra lo stato delle cose e il vecchio, tradizionale metodo di governo; tra l’esigenza primaria di rinnovare la politica e una classe dirigente frutto di un’altra stagione, lontana dalla temperie che il conflitto aveva provocato. Occorre, cioè, reinventare non solo una politica, ma la politica stessa; le soluzioni amministrative avanzate dalla classe dirigente “liberale” risultano alla stregua di “gesti demagogici”. La priorità, per Turati, è salvare il Paese; i socialisti, afferma, “cercano la salvezza del Paese”.

    Tale intenzione costituisce il primo rilevante fattore di novità. I socialisti, infatti, che rappresentano l’alternativa storica allo Stato avvertono il richiamo alla responsabilità nazionale. Essa, però, non significa discostarsi, in qualche modo, dalle masse che rappresentano per una collaborazione di supporto a un salvataggio privo di incisive qualità. Significa, invece, innestare un grande e generale processo di cambiamento: significa, appunto, “rifare l’Italia”. È chiaro – ed è un tema su cui Turati torna più volte – che ciò comporta per gli avversari di classe un prezzo da pagare. Esso si sintetizza nella richiesta di liberare il Paese dall’influenza pesante di una borghesia irresponsabile ed egoista che esprime una classe dirigente non all’altezza della situazione. Un’ insufficienza di cui gli stessi Nitti e Giolitti sono espressione. Turati pone, così, due problemi nuovi e centrali: costruire un’Italia nuova e socializzare il potere. Allora, poiché necessita “rifare l’Italia”, occorre ridefinire il ruolo dello Stato e la sua azione sia in campo politico che in quello economico. Solo nel realizzarsi di tale contesto si può addivenire all’assunzione di nuove responsabilità da parte dei socialisti con una borghesia sana in un’ottica larga, che vada al di là della stessa questione del governo, poiché, dice Turati: “Occorre un programma della nazione, non un programma semplicemente di governo.”

    Il riferimento alla nazione marca in modo netto, tra l’altro, il passaggio dalla concezione del governare quale amministrare a quello del conferirgli l’orientamento politico di uno Stato concepito quale entità centrale e periferica, ossia complesso di Comuni e Provincie; di uno Stato quale insieme proteso al risanamento delle condizioni sociali, della produzione e della salvaguardia dal mondo del lavoro nonché, naturalmente, del ristabilimento di un ordine che risani le conseguenze morali della guerra.

    È un intendimento ambizioso, ma necessario. Esso presenta sostanziali difficoltà a causa della crisi istituzionale della monarchia e della mancanza di un fronte repubblicano con la forza e la capacità di prendere in mano la situazione. Tali osservazioni possono apparire legate alla contingenza, per quanto il discorso di Turati sia di ampio respiro, non solo politico, ma anche culturale. Spicca il richiamo che Turati fa alla funzione nazionale del socialismo. Esso, ora, viene concepito non solo quale forza di difesa e di organizzazione del proletariato, della sua lotta per l’emancipazione dei ceti più deboli, per il loro riscatto civile e sociale, ma quale forza di governo. Con ciò, l’istituzione governo, nella sua concettualità, non è più considerata come una sovrastruttura della borghesia destinata a dissolversi dall’avvento della società senza classi. Tale argomentazione costituisce il passaggio centrale dell’intervento di Turati. Essa, infatti, ci dice che in una parte – ed è una parte rilevante del PSI considerato che ai “concentrazionisti” facevano riferimento la centrale sindacale e la quasi totalità del municipalismo socialista – del socialismo italiano, quella evoluzionista e gradualista, era maturata una coscienza nuova nei confronti della difesa della democrazia e della salvaguardia delle sue istituzioni. Tramite Turati i socialisti italiani – non tutti, naturalmente – arrivano, se pure in ritardo e forse non per via “ideologica”, ma per la spinta delle cose, a un approdo di importanza storica: la centralità della democrazia le cui istituzioni sono di tutti, movimento operaio compreso.

    Turati pronuncia il suo discorso in pieno “diciannovismo”, nella stagione della ricaduta aspra e violenta delle conseguenze della guerra. In quei terribili anni i socialisti e le loro organizzazioni sono entrati nel fuoco della reazione politica che il fascismo incuba strutturando se stesso e praticando l’omicidio degli avversari quale mezzo corrente di lotta politica. Turati, con un coraggio non disgiunto dal senso della storia, ritiene il PSI non solo, com’è naturale che sia, il partito della classe operaia, bensì anche il partito della democrazia. Si tratta di un’acquisizione fondamentale. Se andiamo, infatti, a ripercorrere le varie, talora travagliate stagioni, vissute dal Partito nella sua lunga storia, l’essenza della sua continuità politica si colloca – fatta eccezione per la scelta del Fronte Popolare – sempre sul versante reale della democrazia ritenuto il terreno proprio e imprescindibile per l’affermarsi delle istanze socialiste; quello ove impostare e condurre la propria lotta politica sempre dentro i confini legittimanti la democrazia politica.

    Claudio Treves, chiudendo il suo intervento alla Camera del 30 marzo 1920, si rivolge alle forze responsabili della crisi tremenda che vive il Paese, esprimendo un’intenzione politica che, con modalità diverse, anticipa di qualche mese quanto Turati dirà nel giugno, con queste significative parole: “Ecco l’inesorabile corollario del crimine! Signori, ecco l’Espiazione!” D’altro canto, era stato proprio Treves in un articolo – definito da Rosselli “decisivo” – del 16 gennaio 1920 a lanciare la parola d’ordine di andare al potere. Al potere, sia chiaro, che è cosa ben diversa dal mero assumere incarichi ministeriali. Va osservato come il tema dell’espiazione, per il quale viene comunemente ricordato l’intervento di Treves, di lì a qualche anno, darà il titolo a un libro dimenticato di un socialista, anch’esso dimenticato, Guido Mazzali, intitolato, appunto, L’espiazione socialista: appunti per una storia critica del socialismo italiano, pubblicato sul finire del 1926.

    Alla denuncia minuziosa delle condizioni in cui versa l’Italia, per cui essa va “rifatta”, Turati getta sul tavolo la disponibilità dei socialisti ad assumersi nuove e inedite responsabilità. In ciò vi è la consapevolezza – le critiche a Nitti e a Giolitti lo confermano – che una pagina della storia italiana si è chiusa per sempre; che lo Stato nato dal Risorgimento – l’ossequio che Turati fa a Cavour è tutt’altro che formale, beninteso – non abbia il senso del proprio ruolo e di come si sia affermata una classe dirigente inetta alla prova dei fatti, pilotata da una borghesia arretrata e, al di là della retorica e del populismo, più interessata alle proprie sorti e ai propri interessi che non a quelli generali del Paese.

    Per “rifare l’Italia” occorrono, però, nuove forze e una nuova generale mentalità collettiva. Il socialismo italiano, sicuramente quello che faceva riferimento a Turati a Treves a Matteotti a Buozzi, ci era arrivato, ma gli interlocutori non batterono colpo e, forse, per come oramai il quadro generale si era messo, i socialisti erano arrivati in ritardo. Già le forze borghesi, basite dalla paura di vedere intaccato il tradizionale predominio politico ed economico, stavano guardando in altra direzione nel disfacimento generale e progressivo della classe dirigente liberale nonché nell’arroccamento egoistico di una monarchia immune dal senso della democrazia e da quello dello Stato che considerava e viveva con senso proprietario. Il composito e confuso “liberalismo italiano” post-risorgimentale si veniva sfarinando sotto l’urto di un quadro sociale di un’Italia la quale, dopo aver vinto la guerra, aveva perso il dopoguerra.

    Tante altre sono le questioni presenti nel discorso di Turati. Esso, però, ci rende anche la dimensione di un leader politico che sta nella parte nobile della storia d’Italia. Carlo Rosselli, in chiusura del ricordato saggio, scrive che “Cattaneo, Mazzini, Garibaldi, Pisacane, i grandi vinti del Risorgimento italiano danno la mano a Turati” definito “questo grande, ma provvisorio, vinto del Risorgimento sociale, per annunciare, indissolubilmente uniti la nuova storia italiana.”

    A un secolo dal famoso discorso, riagganciandoci a Rosselli, si può ben dire che da questa storia “una nuova storia italiana” difficilmente potrà prescindere.

 

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