Solitamente molto lontano dalla cronaca occidentale, il Kirghizistan è in questi giorni al centro del dibattito internazionale. Repubblica centroasiatica di quasi sei milioni di abitanti, il paese è stato scosso da violente proteste su tutto il territorio nazionale: la popolazione kirghisa è infatti scesa in piazza contro i risultati delle elezioni parlamentari tenutesi lo scorso 4 ottobre che avevano visto i due partiti vicini a Sooronbay Jeenbekov, l’attuale presidente, vincere la quasi totalità dei seggi. Jeenbekov è oggi scomparso dai radar, mentre Kubatbek Boronov e Dastan Jumabekov, rispettivamente primo ministro del paese e portavoce del parlamento, si sono dimessi dopo che la Commissione elettorale centrale ha annullato il risultato delle elezioni. La folla ha intanto liberato dal carcere Almazbek Atambayev, l’ex presidente, e Sadyr Zhaparov, leader del principale partito d’opposizione, è stato prontamente proposto per la carica di primo ministro ad interim. L’instabilità che circonda le elezioni parlamentari kirghise non ha tuttavia colto di sorpresa la maggior parte degli osservatori: come riportato da Cholpon Dzhakupova, noto attivista per i diritti umani kirghizo, perfino i partiti vincitori hanno riconosciuto che queste elezioni sono state “le più sporche nella storia del paese”.
Un paese frammentato
Fin dall’indipendenza dall’Unione Sovietica ventinove anni fa, il Kirghizistan ha vissuto una storia di contestazione politica, spesso violenta, radicata nelle frammentazioni, etnica e clanica, che ancora oggi caratterizzano il paese. Nonostante i numerosi tentativi da parte delle autorità centrali per la costruzione di un’identità condivisa subito dopo l’indipendenza, infatti, la divisione tra le due etnie maggiormente rappresentate nel paese, kirghisi e uzbeki (rispettivamente, il 73 e il 15 percento della popolazione), è rimasta fortemente radicata nella società moderna, con la minoranza generalmente identificata come “estranea” e “straniera”. In particolare, la città di Osh, nel sud del Kirghizistan, già teatro di violentissimi scontri etno-politici nel giugno 2010 costati 400 vittime tra i membri della minoranza uzbeka, si è nuovamente dimostrata una delle “polveriere” più rischiose anche durante le tensioni di questi giorni. Il grosso delle proteste sta avvenendo nella capitale, ma anche le manifestazioni a Osh sono sfociate nella violenza, mentre regna l’anarchia politica. La folla ha chiamato a gran voce la rielezione di Melisbek Myrzakmatov. In autoesilio in Turchia, Myrzakmatov è una figura estremamente controversa. Si ritiene infatti che abbia chiuso un occhio (o perfino contribuito) alle violenze del 2010: il suo ritorno ad Osh, avvenuto il 7 ottobre, rischia di riaccendere la scintilla dello scontro interetnico nel sud del paese, acutizzando l’instabilità nazionale.
È proprio tra nord e sud che si inserisce la seconda frammentazione del paese, quella clanica. Come la maggior parte delle repubbliche centroasiatiche, anche il Kirghizistan è infatti regolato da politiche claniche, radicate in una competizione tra tre gruppi – l’Ong (la “destra”, localizzato a Sud), il Sol (la “sinistra”, a Nord-Ovest) e l’Ichkilik (un conglomerato di clan di cui fanno parte anche gruppi di origine straniera ma che riconoscono un’identità kirghisa) – per il raggiungimento del potere. Gli scontri tra clan sono spesso stati alla base delle tensioni politiche in Kirghizistan, tanto che diverse figure riconosciute a livello nazionale e internazionale come Chingiz Aitmatov, l’autore del famosissimo romanzo Jamila, hanno più volte sottolineato la necessità di andare oltre la competizione intra- e inter-clanica per riuscire a portare il paese, ancora oggi uno dei più poveri dell’area e del mondo, ad un più alto livello di sviluppo socio-economico.
Un “deja-vu”?
Si tratta della terza volta in 15 anni che una fetta considerevole della popolazione scende in piazza per chiedere un cambiamento politico, tanto che Aruuke Uran Kyzy ha definito questa protesta come una “deja-vu revolution”. Le proteste hanno ovviamente delle diversità importanti, in primis gli attori coinvolti e il livello di violenza interetnica che caratterizzò gli scontri del 2010. Episodi di violenza come quello scoppiato lo scorso agosto, poi, non possono essere catalogati come vere e proprie “rivoluzioni”, trattandosi essenzialmente di scontri tra forze dell’ordine e i sostenitori di Atambayev, che fu successivamente arrestato.
Tuttavia, vi sono anche molte, importanti analogie tra le varie “rivoluzioni” kirghise. La prima è la presenza di evidenti brogli elettorali. Anche questa volta, nel tentativo di garantire una salda presa sul potere, le autorità governative hanno interferito nel processo elettorale in maniera palese, dando luogo a risultati evidentemente falsati: in questo caso, tutti gli undici partiti d’opposizione sono stati esclusi dal parlamento. Si tratta di un modello comune a diversi stati post-sovietici: si pensi solo allo schiacciante 80% dei voti che Alexander Lukashenko avrebbe ricevuto durante le elezioni presidenziali bielorusse la scorsa estate, poco credibile visto il contesto politico ed economico. Inoltre, come accadde nelle passate proteste, il regime ha deciso di rispondere duramente ai manifestanti invece di cercare il dialogo, fomentando dunque la violenza da entrambe le parti.
Vi sono poi mali radicati che, oltre alle frammentazioni etniche e claniche precedentemente citate, hanno contribuito anche questa volta a aizzare le piazze. Si tratta principalmente di povertà e corruzione. Il Kirghizistan – tra i dieci stati più poveri al mondo – ha, come i suoi vicini, un enorme problema di corruzione. Jeenbekov era salito al potere con la promessa di ripulire il sistema; invece ha ripetuto gli stessi errori dei suoi predecessori, perpetuando nepotismo e malaffare. L’attuale posizione del paese nel ranking di Transparency International degli stati più corrotti al mondo è leggermente migliorata rispetto al 2017, anno dell’insediamento di Jeenbekov, ma non abbastanza da far percepire ai cittadini un aumento effettivo della trasparenza. Nel 2019, circa un quarto degli utenti ha infatti dovuto pagare una tangente per ottenere un servizio pubblico. L’epidemia da COVID-19 ha inoltre esacerbato questa situazione, con stime di una contrazione del 10% del PIL nel 2020 (in parte dovuto a una riduzione delle rimesse, essenziali per l’economia kirghisa), accompagnata ad un pesante aumento della disoccupazione e della violenza domestica.
Quale ruolo per gli attori regionali?
Mosca rimane un attore chiave in Asia centrale, politicamente, economicamente e culturalmente, oltre ad essere leader dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (l’alleanza difensiva di cui il Kirghizistan fa parte). Nonostante questo, la Russia è già alle prese con numerosi problemi: a livello interno, il Cremlino deve fronteggiare le incessanti proteste in Siberia, ma soprattutto una crisi economica che la preoccupante recrudescenza della pandemia non fa che aggravare. A livello internazionale, poi, Mosca è alle prese con una regione in subbuglio, con l’escalation militare in Nagorno-Karabakh e le grandi proteste in Bielorussia, ma anche con la situazione irrisolta in Ucraina e relazioni sempre tese con Stati Uniti e UE. Anche alla luce di questo, la Russia sta per ora tenendo un profilo basso in Kirghizistan. Bisogna però ricordare che Mosca assunse un atteggiamento simile anche nella rivoluzione dei Tulipani del 2005 o nella Seconda rivoluzione kirghisa del 2010, nonché nelle proteste lo scorso anno, nonostante Atambayev fosse andato a chiedere – senza successo – il sostegno di Vladimir Putin.
Anche la Cina, diventata essa stessa attore cruciale nell’area centroasiatica, non sembra avere per ora intenzione di intervenire. Di tutte le repubbliche centroasiatiche, il Kirghizistan è uno di quelle dove la Cina ha investito di meno: 4,7 miliardi di dollari dal 2005 contro i 35,5 miliardi riservati al Kazakistan. Inoltre Pechino si è in questo periodo riscoperta ben salda nel suo famoso “principio di non interferenza negli affari interni di un paese” dietro cui, fin dall’implementazione della legge sulla sicurezza a Hong Kong, si è radicata per far fronte alle critiche che le arrivano da tutto il mondo: difficilmente decida di fare un’eccezione per cercare di mediare le tensioni in Kirghizistan.
Poiché l’Asia Centrale ha negli ultimi anni riscoperto l’ideale dello sviluppo di un’effettiva cooperazione interna e regionale, un candidato più promettente di Russia e Cina potrebbe essere il Kazakistan che ha di recente sperimentato una transizione politica di successo che, di conseguenza, ha permesso al paese di portare a termine sostanziali riforme giuridiche come l’abolizione della pena di morte.RE AN