“Siamo tutti pazienti del dottor Nowzaradan”

Arte, Cultura & Società

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Nella Grecia classica i governanti facevano costruire teatri nei quali tutta la popolazione potesse assistere alle commedie o alle tragedie dei più grandi intellettuali dell’epoca  e confrontarsi col loro pensiero.

Oggi molti di noi, dopo una giornata di lavoro, tornano a casa e non vedono l’ora di accendere la tv, sedere sul proprio divano e… guardare “Vite al limite” il format americano nel quale vengono raccontate le storie di grandi obesi ( superano i duecentocinquanta chili di peso) che decidono di farsi curare dal dottor Nowzaradan, un abile chirurgo bariatrico che cerca, dopo un intervento di riduzione dello stomaco ed una dieta ferrea, di fare in modo che questi uomini e queste donne possano tornare a condurre una vita normale.

La maggior parte dei telespettatori italiani si trova così catapultato in una quotidianità di cui è impossibile che abbia esperienza diretta e resta sgomento nell’osservare le condizioni di malattia estrema in cui un essere umano può ridursi a causa della dipendenza dal cibo. Lo schema che ho brevemente sintetizzato è, a parte qualche variante, il medesimo in tutti gli episodi, cambia solamente il nome di colui o di colei che decide di far ricorso alle solerti cure del dottor Nowzaradan e, dopo averne seguito un paio di puntate, il programma finisce col diventare una noiosa ripetizione dei copioni delle sia pur abnormi condizioni di vita di questi pazienti.

Nonostante ciò “Vite al limite” è da qualche anno assiduamente seguito da milioni di telespettatori ed ovviamente non solo in Italia: perché? Se girassimo la domanda a qualcuno di loro è improbabile che ne otterremmo un’analisi approfondita ed in effetti non è facile comprendere le ragioni che tengono morbosamente incollati allo schermo mentre scorrono le imbarazzanti immagini dei pazienti di Nowzaradan. C’è senz’altro una componente voyeuristica che ci spinge a guardare il quotidiano senza più dignità di questi esseri umani e che ci testimonia ancora una volta l’esistenza di un lato di noi di cui converrebbe non andare fieri e del quale fino a non molto tempo fa ci vergognavamo.

Inaspettatamente una risposta al perché del grande successo riscosso dal programma ci viene dal racconto che ognuno di quei telespettatori farebbe della propria vita, delle sollecitazioni, delle pressioni a cui è continuamente e consapevolmente sottoposto e del livello di insofferenza che ha sviluppato. Se ci fermassimo ad ascoltare un paio di quei racconti, ci renderemmo conto che la distanza tra loro ed i protagonisti del format non è grande quanto in apparenza ci si aspetterebbe. Insomma, siamo tutti un po’ pazienti del dottor Nowzaradan, tutti facciamo fatica a convincerci della necessità di seguire delle regole ed assurdamente, benché pochissimi di noi possano essere definiti “grandi obesi” tutti ci sentiamo sottoposti ad un qualche giudizio che riguarda il nostro aspetto fisico e vediamo nelle battaglie di quei pazienti in qualche modo le nostre per combattere le inadeguatezze di cui ci sentiamo, nostro malgrado, portatori.

Ad onta dunque di quanto molti credono, la chiave del successo del format  va ricercata in noi, più che nell’asettica figura del medico, verso il quale faccio fatica ad immaginare qualunque perversa forma di transfert o nella noiosa ripetitività del copione e dell’inserimento dei melodrammatici spezzoni di colonna sonora. Altrettanto privi di spessore e poco credibili sono poi i colloqui dei pazienti con gli psicologi.

Insomma, ad eccezione di qualche rara espressione autentica e partecipata del demiurgo, “Vite al limite” risulta essere un programma scadente quasi da ogni punto di vista, ma i telespettatori non sembrano interessarsene, forse anche grazie alle realtà rappresentate, così estreme da far apparire i nostri disagi quotidiani prerogative da vincenti.

Una ragione ulteriore che attrae gli spettatori di “Vite al limite” è che la trasmissione pone l’accento su una questione che ci riguarda tutti e cioè il quantum delle cose, in questo caso del cibo da assumere quotidianamente. La nostra è una civiltà che ha rinunciato alle regole ferree della vecchia educazione, fatta di obblighi e punizioni, divieti e sensi di colpa e che lasciava all’individuo solo uno spazio risicato nel quale esercitare la propria libertà personale, appaltando il resto alla famiglia, alla parrocchia, alle leggi dello stato. Dopo il 68 si è venuto formando un nuovo antropocentrismo, che pone al centro del mondo l’individuo ed i suoi bisogni e rispetto al quale quasi nessun consorzio umano ha più diritto di parola  o di azione. Se da un lato ancora oggi non si può non ritenere questa centralità preferibile al saccheggio da sempre esercitato da parte delle famiglie e di cui si trova traccia in ogni civiltà passata, dall’altro è inevitabile che l’uomo si trovi smarrito di fronte alla propria vita, incapace di stabilire da solo il quantum delle cose, in un rapporto sempre più esclusivo e solitario con ciò che quotidianamente consuma, in balia di un obbligo di responsabilità che lo accompagna ventiquattr’ore su ventiquattro e da cui era inevitabile che prima o poi avrebbe cercato di fuggire.

Anche a questa solitudine dell’uomo di fronte ai consumi si deve l’abuso di alcol, droghe ed appunto cibo, come rifugio da una indivisibile responsabilità che ricade esclusivamente sul singolo.

In questo contesto, programmi come “Vite al limite” mettono in scena la rappresentazione di dove il limite possa spostarsi se lasciato esclusivamente all’individuo ed alla sfrenata libertà di acquistare e consumare su cui non è più possibile esercitare alcun veto di ordine morale.

Rosamaria Fumarola

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