Quando Cesare Pavese parlava di Dante Alighieri

Arte, Cultura & Società

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Pavese, in più occasioni, annotò su Dante citandolo come riferimento linguistico nei suoi saggi, nelle sue lettere nel suo “mestiere di vivere”. Pavese attraversò Dante soprattutto in un percorso tra la “Vita nova” e il “De vulgari” in una ricerca che innovò la griglia semantica tra lingua e dialetto.

La presenza di Dante in Pavese si avverte principalmente all’inizio e alla fine del suo percorso letterario, ossia in “Lavorare stanca”, lavoro che segna il suo esordio nel 1936 e nei “Dialoghi di Leucò”, raccolta mitologica pubblicata nel 1947. Nelle sue poesie giovanili si notano espliciti rimandi alla “Vita Nova” di Dante. In un componimento poetico dal titolo “Sfoghi” (1926) la protagonista femminile ricorda la Beatrice dantesca soprattutto nei versi: «Tenue, velata dal sogno divino / che gonfiò l’anima del suo poeta / angosciosamente una segreta / passione mostra sul volto supino».

In seguito ne “Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950” Pavese cita Dante come uno tra i suoi “antiqui prediletti”, affermazione questa che verrà ripresa anche successivamente a riprova dell’ammirazione che nutriva nei confronti del sommo poeta. Pavese leggeva Dante non soltanto per adottarlo come modello estetico, quanto piuttosto come modello etico. Questa “etica dantesca” la ritroviamo nei suoi scritti fin da subito.

Metafore sommerse. “Quando Pavese disse di Dante”.

Prossimamente in videconferenza con Pierfranco Bruni nel corso delle celebrazioni “Dante 700, in collaborazione con il Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi”, il Sindacato Libero Scrittori Italiani, l’Istituto Scolastico Casalini.

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