Signorello, l’operaio nella vigna del Divo Giulio

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Nicola Signorello fu per Roma più di un simbolo: fu l’ultimo degli andreottiani doc a governare l’Urbe come fino ad allora era stato fatto
© Vittorio La Verde / AGF – Nicola Signorello

 

AGI – Montatura spessa e lenti a fondo di bottiglia, Nicola Signorello fu per Roma non un simbolo, ma due. Roma città che abbracciava tra i suoi figli gli italici, più papalina però che non imperiale; Roma che cresceva, si sviluppava, sognava un megastadio che mai è arrivato, nonostante i sogni di Viola (altro italico abbracciato) e di Pallotta (italico anch’egli, ma se n’è andato).
Insomma, Roma democristiana, che a leggere le pagine dell’Insolera fu, a parte un piano regolatore a firma Aldo Moro, neghittosa sregolatezza più che genio e vai a dargli torto.

Ma anche Capitale, per la prima volta vissuta come tale dopo gli eccessi di un Ventennio di retorica. Sì, perché è a lui, andreottiano di serietà comprovata e accertata, che in fondo si deve molto degli avvenimenti futuri. A lui, alla sua sconfitta dopo le vittorie olimpiche.

Ci spieghiamo: Nicola Signorello, che non a caso di chiacchiere addosso ne ebbe poche in una città che al malizioso chiacchiericcio è dedita da una trentina di secoli e quindi è ben esperta, fu l’ultimo degli andreottiani doc a governare l’Urbe come fino ad allora era stato fatto. 

Vale a dire: con un non so che di scaltrezza non priva di visione, seppur temperata nel pragmatismo rasentante, ohibò, il “famo a capisse”.
Italico era, tecnicamente e anagraficamente: nacque infatti a San Nicola da Crissa, vicino a Vibo. Non esattamente trasteverino.

Ma l’antica Urbe di quegli anni ormai antichi anch’essi allargava a modo suo le braccia a centinaia di migliaia di forestieri, che si inurbavano per l’appunto nelle sue strade venendo a formare una nuova romanità.

Ed il trasteverino era soppiantato – lessicalmente ma non solo – da un nuovo patois che giustamente viene chiamato romanaccio a distinzione dal nobile suo antenato, il romanesco. Insomma, Roma si trasformava restando sé stessa, e Nicola Signorello restò sé stesso trasformandosi in romano più dei romani. Fino a esserne il primo.

Un percorso non facile, sicuramente lungo. Nel ’52, a 26 anni, già era consigliere provinciale. Anni in cui il Comune e la Dc degasperiana erano squassati dall’Operazione Sturzo, mentre la Provincia finiva non a caso in mano ai comunisti. Il giovanotto era vicino e molto a Mario Scelba, il che è tutto dire, ma aveva simpatie nicodemiche per la sinistra di base: le avrebbe mantenute negli anni, pur sapendo che se volevi fare politica, per quei vicoli, della sinistra non potevi essere e poco anche di Scelba.

Signorello era così: umile operaio nella vigna del Divo Giulio. Ma non lo si sottovaluti: esistono anche gli operai specializzati senza i quali nessuna ditta va avanti e lui di specializzazione ne ebbe molta. Lo ripetiamo: senza mai finire in mezzo alle chiacchiere. Chi vuol gridare al miracolo lo faccia, ma si sappia che non fu l’unico.

Per questi motivi, a metà degli anni ’80, un segretario democristiano della sinistra di base gli affidò la patata più bollente di tutte. Il regalo avvelenato consisteva nella nomina a commissario della riottosa e irrefrenabile Democrazia Cristiana romana. A rifilarglielo fu Ciriaco De Mita. Non si pensi al solito dispetto tra correnti: i due si stimavano e in più la scelta fu fatta perché resa necessaria dalla sconfitta patita dalla Dc nell”83 e dall’onda lunga di un altolà proveniente da un Oltretevere stanco di una Roma cresciuta in barba al piano regolatore di Aldo Moro e a immagine e somiglianza dei Rebecchini.

Quando De Mita gli chiese di rilanciare la Dc a Roma

In altre parole, doveva rilanciare la Dc e Roma a dispetto di Roma e della Dc. No, non si pensi male: non fu un illuso Anzi, arrivò ad un passo dal traguardo. Innanzitutto sloggiò per la seconda volta i comunisti: lo aveva fatto con la Provincia, questa volta lo fece con il Comune. Sindaco al posto di Ugo Vetere: nemmeno il Colonna alla Battaglia di Lepanto.

Scelse così la causa comune con quell’altro romano di Sora cresciuto alla scuola degasperiana chiamato Giulio Andreotti. La scelta fu felice, il sodalizio durò tutta la vita. Intanto aveva colto il suo primo, grande successo.

Era il 1960, l’anno delle Olimpiadi. Signorello non ne fu mentore o realizzatore, ma gli andreottiani sì. Lui accompagnò il processo e si godette lo spettacolo, avendo i suoi meriti perché con lui i comunisti erano stati sloggiati finalmente da Palazzo Valentini. Che vuoi di più. Roma tornava, dopo lunga e necessaria purga, capitale tra le capitali europee: tre anni prima aveva dato alla luce il primo nucleo dell’Unione Europea, adesso con il beneplacito del Cio faceva correre Abebe Bikila sotto l’Arco di Tito, e tutti giù a applaudire.

Sarebbe entrato di lì a poco in Senato: non quello dei Fori, quello a Palazzo Madama. Hic manebimus optime, o almeno per una ventina d’anni, con più di un incarico da ministro. Turismo, sport, spettacolo, marina mercantile: mai agli esteri – territorio dell’amico Giulio – o economia. Il superficiale direbbe: robina da poco. Sì, ma non per chi ha sempre Roma nel cuore. Da quei dicasteri si regolava tanto del traffico del consenso che poi fa, messo insieme da mille rivoli, elettorato.

Proprio come Marcantonio Colonna, però, si dovette rendere subito conto che i veri nemici non sono gli infedeli, ma le fazioni romane decise a mandarti la vittoria giù per il gargarozzo.
La Dc romana non era più quella – non diremmo certo romantica ma almeno non del tutto irrefrenata – della gioventù di Signorello. Una nuova generazione si era fatta avanti, ed il suo capofila era un ex autista guardaspalle non esattamente di sinistra. Il suo nome era Vittorio Sbardella. Lo scontro tra il vecchio Akela e il giovane maschio alpha, quest’ultimo con alleanze socialiste, durò tre anni e fu esiziale per il primo, ma anche per De Mita.

Non ci soffermeremo oltre: il futuro sarebbe stato fatto di centinaia di delibere comunali votate in una notte prima del commissariamento del comune. Ma in quel momento Signorello era già ritirato a vita privata.

Tre crisi di giunta dovette subire in tre anni, il Signorello sindaco di Roma. Alla fine, non ne potè più e se ne andò, portando con sè il copyright della madre di tutte le promesse: la costruzione di un nuovo megastadio per la Capitale, dopo quell’Olimpico alla cui inaugurazione aveva partecipato giovane e trionfante.

Ora, non è che uno stadio nuovo faccia primavera, ed è vero che l’aver tirato fuori l’idea fece sì che Singorello fosse spesso accusato di immobilismo. Ma a vedere quel che hanno promesso in materia i suoi successori, e quel che hanno raggiunto, forse un pò di nostalgia per l’umile operaio viene, e anche per il Marcantonio Colonna.

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