Avv. Giovanna Barca – Le Avvocate Italiane
Il caso del piccolo Enea, il neonato lasciato nella culla per la vita del Policlinico di Milano, ha smosso le coscienze di tante mamme ed ha spinto un po’ tutti, rimasti attoniti dall’ accaduto, a riflettere e prendere delle posizioni, anche contrastanti, in merito.
Il bimbo è stato abbandonato nel Giorno di Pasqua. Alle 11.40 è scattato l’allarme della Culla per la Vita, che è una struttura riscaldata, che ha permesso ai medici e alle infermiere di potersi catapultare all’ingresso della Clinica Mangiagalli. Nella culla c’era un bimbo avvolto da una coperta verde e una lettera: “Ciao, sono Enea. La mamma mi vuole bene, ma non può occuparsi di me”. Il testo è firmato dalla madre del piccolo.
Oggi, Enea sta bene ed è stato affidato all’ospedale: il direttore della Neonatologia, Fabio Mosca, aveva lanciato un appello alla madre del piccolo: “Voglio che sappia che noi possiamo aiutarlo a farglielo crescere e che nulla è perduto. Io desidero parlare a questa mamma e dire che siamo pronti a starle accanto, di mettersi in contatto con me e con l’ospedale”.
Quello di Enea è il terzo caso da quando è stata inaugurata la Culla per la Vita nel 2007: il primo è stato quello di Mario, neonato lasciato nel 2012. Il secondo quello di Giovanni che, quando è stato abbandonato nel 2016, aveva già due mesi di vita.
Cosa spinge, ci siamo chiesti, una madre ad abbandonare il figlio appena nato?
Ristrettezza economica, mancanza di stabilità affettiva, depressione post portum, tante possono essere le cause alla base di questa scelta così dolorosa, ma mai si giudica una mamma che arriva ad un gesto così estremo. Chi abbandona il proprio figlio è disperata, è impaurita, si sente persa, ma, nonostante tutto, ha avuto il coraggio di donare la vita al proprio bambino, gli ha regalato il diritto di nascere. Grazie al suo atto di coraggio, scegliendo la vita, i medici sentono la speranza che la donna, dinanzi ai loro appelli, ritorni da quel bambino, suo figlio. E rivendichi ad alta voce la sua maternità!
Sentimenti forti e contrastanti che si avvicendano nell’animo di una donna, ma comunque umani: inumana, invece, è una società che non fa sentire al sicuro e protetta una mamma in difficoltà e sola!
I casi di abbandono dei neonati stanno diventando alquanto frequenti e per fortuna, anche in Italia parecchi Ospedali si sono attrezzati con le famose culle per la vita o termiche (sono incubatrici neonatali che accolgono temporaneamente neonati pretermine o sottopeso), che hanno sostituito la famigerata “ruota degli esposti”, che a Napoli comparve nel 1300 nella Chiesa dell’Annunziata. Nel 2008, il Policlinico napoletano ha inaugurato la prima culla termica per i bambini abbandonati, per garantire il diritto al parto in anonimato riconosciuto dalla legge italiana.
Dopo Napoli, il progetto è stato adottato anche dall’ospedale materno infantile di Varese, dal Sant’Anna a Torino, dal policlinico di Padova, di Firenze e di Milano.
Per la legge italiana, si può scegliere di partorire in anonimato.
La legge consente a una madre che partorisce in ospedale di non riconoscere il bambino e di lasciarlo nell’Ospedale dove è nato (DPR 396/2000, art. 30, comma 2) affinché sia assicurata l’assistenza e anche la sua tutela giuridica. Il nome della madre rimane per sempre segreto e nell’atto di nascita del bambino viene scritto “nato da donna che non consente di essere nominata”.
Ma, l’abbandono è sempre una sofferenza sia per la madre che per il piccolo.
Non è facile per una mamma arrivare ad una scelta così forte, rinunciare al sangue del suo sangue dopo nove mesi di gestazione.
Questa mamma, non avendo elaborato la propria esperienza traumatica, non riesce a rappresentarsi il bambino e i suoi bisogni, perché tende a rispecchiare nel figlio il proprio vissuto irrisolto. In questi casi, prevale l’esigenza del genitore di proteggere sé stesso. Questa madre fallisce nel percepire e nel sintonizzarsi emotivamente con il proprio bambino, e tende a sperimentare un’esperienza assimilabile alla dissociazione.
La società deve sentirsi responsabile nei confronti di queste madri: dovrebbe sostenerle ed aiutarle a seguire un percorso di elaborazione e sostegno dal momento della scoperta della gravidanza.
Quindi, nonostante gli effetti e le conseguenze psico-sociali dell’abbandono possano essere diverse tra la madre e il bambino, entrambi risulteranno segnati, spesso a vita, da questo evento.
Quindi non si può negare la necessità di una giustizia cd. riparativa, ovvero “ […] di percorsi di riconciliazione e perdono, che possono aprire a possibilità di resilienza, che non abbiano forma solo privatistica, ma che trovino uno spazio pubblico in cui esprimersi ed essere legittimati”.
In questo medesimo scenario, un utile strumento di raccordo tra i diversi soggetti, non solo istituzionali, coinvolti in questa complessa vicenda, potrebbe essere il ricorso alla mediazione familiare.
La figura del mediatore familiare potrebbe essere inserita nell’equipe specializzata, appositamente formata, che accoglierà la donna che ha deciso di rivolgersi a questo tipo di servizio, mettendo a disposizione professionalità e competenze specifiche. Chiaramente, il supporto di un servizio di mediazione familiare sarebbe utile alla donna qualunque sia la sua decisione. Questo vale sia nel caso in cui la donna abbia scelto di partorire in anonimato, sia laddove abbia dei dubbi sul da farsi, oppure decida di tenere il bambino, ma risulti comunque bisognosa di supporto. Infine, il mediatore familiare sarebbe di indubbia utilità nel momento dell’interpello, unendo la sua figura professionale alle altre due già presenti in questa sede, l’assistente sociale e lo psicologo. Questi operatori informeranno adeguatamente la donna interpellata, dal figlio abbandonato, su quali sono i suoi diritti e la sua posizione in quanto madre biologica.
Il nostro sistema giuridico e la rete dei servizi non si occupa più delle madri di nascita una volta decretata l’adozione e collocato il bambino. Queste donne sono lasciate al loro destino. Serve loro una spalla su cui piangere e mani che le tengano; essere aiutate a riconoscere e perdonare sé stesse, se effettivamente vogliamo aiutarle e per effetto aiutare i loro figli.
Si tenga presente che, in molti casi i bambini, fino all’età adulta, rimangono all’oscuro della vera identità dei genitori naturali. Questo accade perché, fino a poco tempo fa, non era possibile cercare la propria famiglia d’origine.
Diciamo che il servizio di aiuto e supporto potrebbe aiutare anche un domani un figlio a superare e comprendere meglio la sua storia e magari meglio accettare le motivazioni della madre che lo ha abbandonato e, speriamo, perdonarla.
In seguito al riconoscimento in Italia della pronuncia sul caso Godelli (Corte EDU, Godelli c. Italia, 25.09.2012) da parte della nostra giurisprudenza (Corte Cost. sent. 22.11.2013, n. 278; Corte di Cass. Civ. S.U., sent. 25.01.2017, n. 1946), è stato inserito nel nostro ordinamento giuridico lo strumento dell’interpello, allo scopo di sondare la volontà attuale della madre biologica a mantenere l’anonimato.
Ai sensi dell’art. 28, cc. 5, 7, L. n. 184/83, una volta che il figlio, adottato e non riconosciuto alla nascita dalla madre biologica, presentata apposita istanza presso il Tribunale per i minorenni di residenza di accesso alle informazioni sulle proprie origini, il Tribunale per i minorenni adito, coadiuvato dalla Polizia Giudiziaria, procederà a svolgere una serie di ricerche per individuare la donna. Sia che questa abbia intenzione di restare anonima, sia che voglia svelare la propria identità, verrà convocata presso il Tribunale per i minorenni dal giudice incaricato, affinché le siano presentati, in un apposito setting che tuteli la propria riservatezza, insieme ad uno psicologo e ad un’assistente sociale, quali sono i suoi diritti e le conseguenze di un’eventuale svelamento della propria identità.
Per questo sarebbe importante ancora considerare la circostanza di formare, appositamente, la Polizia Giudiziaria, allo scopo di comprendere la delicata indagine che andranno a svolgere nei confronti della madre biologica. In particolare, gli agenti dovranno essere consapevoli che la madre, nel frattempo, potrebbe essersi costruita una nuova famiglia e una nuova vita. Talvolta la famiglia non sarà a conoscenza della sua scelta passata. La situazione è molto delicata, perciò le indagini dovranno essere svolte nella massima attenzione e discrezione, nel rispetto della madre biologica, della sua riservatezza e di quella della sua famiglia.
Laddove la madre biologica accetti di sciogliere il proprio anonimato, il primo incontro tra lei e il figlio adottato dovrà svolgersi con tutte le precauzioni necessarie. L’incontro non potrà essere lasciato al caso, ma dovrà essere appositamente organizzato all’interno di un setting specifico. Purtroppo, sul punto non vi sono linee guida condivise, e mancando una legge ad hoc che disciplini questo delicato momento, ciascun Tribunale minori ha previsto delle proprie prassi operative. Alcuni Tribunali minorili, addirittura, non disciplinano affatto questo momento, con tutte le conseguenze che ne possono derivare, sia da un punto di vista psicologico che personale. Altri ancora, invece, si sono dimostrati particolarmente ricettivi al tema della ricerca delle origini.
Sarebbe importante mettersi in gioco sul serio e valutare proposte di modifiche della normativa vigente che possano proteggere realmente una madre in difficoltà!
Se si aiuta una madre, il suo bambino avrà la possibilità di crescere all’insegna dell’amore con meno vissuti traumatici e di sofferenza.