“Io Capitano”: Matteo Garrone in dibattito con gli spettatori al Nuovo Cinema Sacher

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ROMA – Sabato 14 ottobre 2023, al Nuovo Cinema Sacher fondato dal grande Nanni Moretti – a seguito della proiezione serale di “Io Capitano” – si è tenuto un dibattito tra il pubblico presente in sala e il regista Matteo Garrone. Il film è candidato agli Oscar come Miglior Film Internazionale in rappresentanza dell’Italia e tratta del viaggio compiuto da un giovane ragazzo senegalese per raggiungere l’Italia, un viaggio che lo vedrà diventare appunto capitano di un barcone pieno di “fratelli” da portare in salvo. Vengono sviscerati tutti i momenti salienti della traversata come l’abbandono della propria famiglia e della propria terra, la paura di morire nel mentre e di non farne più ritorno, l’atrocità delle torture, la speculazione disumana delle tratte ma l’incoscienza e la purezza con cui milioni e milioni di ragazzi africani intraprendono il viaggio ricchi di speranze e sogni.

È proprio Nanni Moretti a condurre il dibattito ponendo direttamente qualche domanda al regista.

  • “Da dove è nata l’idea di questo film?”

“L’idea è nata dal desiderio di dare una forma visiva a un viaggio che non è visibile a noi. Pensavo già da tempo a questo film ma ho iniziato a lavorarci solo dopo aver finito Dogman e Pinocchio. Molti anni fa, in un centro di accoglienza di Catania mi hanno raccontato la storia di questo ragazzo di 15 anni. Fofanat, che aveva trasportato un barcone con 250 migranti dalla Libia alle coste della Sicilia senza aver mai guidato una barca in vita sua. Mi aveva particolarmente colpito perché mi rimandava ai romanzi d’avventura di Stevenson e Jack London, ma la paura di toccare un tema così delicato – soprattutto da italiano borghese -, di entrare in una cultura che non è la mia e il rischio di essere interpretato come uno speculatore o di prendere scivoloni, mi ha inizialmente bloccato. Poi però, può sembrare un po’ presuntuoso dirlo, ma è stato quasi il film a venire da me. Così ho cominciato a scriverlo non solo con i due/tre collaboratori con cui lavoro da sempre ma, essendo un film che fonde tra loro quattro storie di vita reali, ho pensato che l’unico modo per rendergli davvero giustizia e raccontarlo al meglio fosse realizzarlo proprio insieme alla gente del luogo, che ha vissuto sulla propria pelle quel viaggio. Il risultato è stato un road movie misto a viaggio di formazione, dove il protagonista parte ragazzo e arriva uomo”.

  • Come hai fatto a dirigerli?

“Mentre giravo avevo qualcuno che mi traduceva il wolof perché non parlo la loro lingua e loro non sanno l’italiano. Quindi nel corso dei mesi ho letteralmente diretto gli attori senza comprendere ciò che dicevano (ride, ndr), ma c’era sempre tanta fiducia reciproca. Sono stati in pratica i primissimi spettatori. Li ho voluti accanto a me davanti il monitor affinché mi aiutassero a ricostruire il viaggio nella maniera più fedele possibile e affinché vedessero le scene e le immagini che stavamo creando e mi dicessero se nel modo in cui le avevamo catturate le percepivano reali. Per esempio, la scena nel carcere in cui uno dei libici entra e dice: “Ho bisogno di muratori; ho bisogno di falegnami…” l’avevo inizialmente girata con l’intermediario senegalese come loro, ma non funzionava, perché non esprimeva quella specifica cattiveria e tensione del momento. E quindi l’ho rifatta con il libico ed appena è entrato nell’inquadratura ho subito sentito che aveva un’altra autenticità. Infatti, quando abbiamo terminato la scena, tutti (che erano veri migranti) hanno applaudito per dire: “sì, ora ci sei”.

  • Qual è il punto di forza del film secondo te?

Beh, come dicevo, io credo che sia stata una vera fortuna lavorare direttamente con loro che sono gli unici veri portatori dell’epica contemporanea, i veri protagonisti dell’Odissea dei nostri tempi, per i quali io ho messo a servizio il mio mestiere rivestendo semplicemente il ruolo di tramite. Questa è stata la forza del film insieme soprattutto al fatto che per la prima volta questo viaggio viene raccontato non dal punto di vista esterno occidentale, bensì dalla prospettiva interna di chi lo ha compiuto in prima persona. E poi altro aspetto fondamentale per la riuscita è stata la grande intensità, l’umanità, il dolore insito negli sguardi e la purezza con cui hanno recitato gli attori e in primis il protagonista Seydou, che ha creato un’empatia quasi immediata con il pubblico portandolo a vivere con lui tutto l’iter. Questo era un po’ il nostro obiettivo.”

  • A gennaio uscirà anche nelle sale in Francia, giusto?

Sì, ma la novità più interessante è che a metà dicembre ci sarà la prima del film anche a Dakar in Senegal al cinema Pathè. Sono curioso di vedere come verrà accolto da loro perché sto già progettando di portare il film in più località africane possibili, per farlo vedere proprio a quei giovani che desiderano affrontare il viaggio. Un’altra particolarità di Io Capitano infatti credo sia proprio quella di aver trattato un tipo di migrazione di cui non siamo solitamente abituati a discutere perché parla di ragazzi che migrano non per scappare dalla guerra, dalla condizione di povertà assoluta, dal cambiamento climatico e così via ma, che migrano per la voglia di conoscere il mondo e di viaggiare con la speranza di avere maggiori opportunità e aiutare la propria famiglia.  Anche lì la globalizzazione è arrivata forte e con i cellulari e i social network hanno accesso a una finestra quotidiana sul nostro mondo, un mondo che ai loro occhi sembra ancora più luccicante perché non vedono il dietro le quinte. Perciò è comprensibile e umano – così come lo stato per noi o lo è per i nostri figli – che abbiano il sogno di viaggiare, il problema è che esiste un sistema marcio che impedisce loro di muoversi con libertà.”

Il dibattito si è poi allargato alle curiosità e ai commenti del pubblico, il quale ha partecipato con grande ammirazione e passione. In particolare è giunto un complimentato al regista per la descrizione accurata e forte delle figure femminili e per aver realizzato un film che non si lascia andare né all’autocompiacimento, né alla commiserazione dei poveri. “L’attrice che interpreta il ruolo della madre di Seydou, recitando ha rievocato qualcosa che probabilmente aveva dentro perché l’aveva già vissuta e quindi nel momento in cui l’ha riproposta è venuto fuori tutto il sentimento, il calore, la gioia mista a dolore dal ricordo di un avvenimento reale.” – ha risposto Garrone – “Per questo durante la recitazione un po’ hanno sofferto e ci sono stati frangenti in cui è stato molto doloroso per loro. Ad esempio la scena in cui Seydou cerca di salvare la donna nel deserto: nei primi ciak era stato molto vero, semplice e intenso ma durante il terzo in particolare ha cominciato a piangere senza riuscire a smettere e il motivo – che mi ha rivelato poi solo la sera – era che durante la scena aveva rivisto il padre che è morto anni prima tra le sue braccia. Con loro è andata spesso così. Sono emozionanti, senza alcuna sovrastruttura accademica o narcisismo.

Tra i presenti anche appartenenti ad associazioni d’integrazione per rifugiati in Italia, come una volontaria di Refugees Welcome, che ha interrogato Garrone circa l’effetto del suo film sul risveglio delle coscienze. “Non so darti una risposta, è ancora troppo presto per riscontrarlo. – gli ha risposto il regista – Mi auguro ci riesca. Per ora quello che posso dire è che sono molto contento che il film stia facendo il giro delle scuole di tutta Italia e penso che sia importante perché c’è più possibilità che nel tempo lasci un segno e aiuti a comprendere l’altro da sé anche solo nelle cose semplici. E poi il film, essendo il viaggio dell’eroe per antonomasia, quindi anche con molta azione, riesce ad attirare i giovani dando loro delle informazioni seppur non in maniera didascalica. Facendo qualche calcolo 1 italiano su 300 ha visto il film e devo dire che – pur essendo consapevole della sua struttura popolare che lo rende accessibile a un pubblico trasversale – è un risultato già sorprendente. Quindi forse può essere un segnale positivo.”

  • Qual è stato il momento più bello e quello più difficile di tutte le fasi di lavorazione del film?

Nella fase del girato sicuramente quello che ricordo con più emozione è l’inquadratura finale che è uno di quei momenti che accadono raramente nella carriera di un regista perché sono istanti in cui sai che sta accadendo qualcosa di irripetibile: un primo piano che è durato 4 min durante i quali Seydou solo con l’espressione del volto fa rivivere tutto quanto e fa capire tutti i suoi stati d’animo. Di momenti difficili sul set e non ce ne sono stati molti. Ad esempio, la scena in cui la polizia libica ferma nel deserto i migranti per controllare dove avessero nascosto i soldi, è stata una scena che sono riuscito a realizzare solo dopo due giorni perché volevo trovare il tono giusto per evitare di farla diventare involontariamente comica. Il cinema è una forma d’arte piuttosto esoterica, ma anche illusoria e infatti quando sono nel processo di montaggio, dovendo rivedere il girato tante volte, ho sempre la percezione che le immagini cambino, che si modifichi il ritmo, e quindi ci sono giorni in cui mi convincono e giorni in cui vorrei rifare tutto. Questo mi fa vivere un continuo cambio di umore perché trovare la quadra non è facile.”  

Altri interventi dal pubblico sono arrivati da chi conosce in prima persona storie di africani che non sono mai tornati a casa, in quanto direttrice di una ONG in Francia che si occupa di sviluppare l’industria culturale e creativa nei territori a sud del mondo. Con il suo intervento infatti ha voluto piuttosto esortare a promuovere il film nei quartieri popolari e piccoli in Africa affinché quei giovani che rischiano di partire siano consapevoli dei pericoli, ma anche di farlo girare in occasioni di aggregazione e di dibattito in Italia grazie alle quali si potrebbe aprire un dialogo con i nostri politici e presentare proposte per cambiare la situazione odierna.

  • Come avete trovato gli attori?

“Abbiamo fatto dei casting tra chi non aveva mai recitato e aveva solo questa passione e chi invece aveva un minimo studiato recitazione. Seydou rientrava nella prima categoria, questo è stata la sua prima prova attoriale, il suo primo film ed è comunque riuscito a dare al suo personaggio un’interpretazione tridimensionale, acerba e sincera che cercavamo. La chiave per tutti gli attori del film è stata l’incoscienza con cui hanno affrontato le riprese perché loro non hanno mai avuto in mano la sceneggiatura – un po’ per mia scelta e un po’ perché il wolof è una lingua parlata – e quindi vivevano giorno per giorno senza sapere a cosa andavano incontro: io, come al solito, giravo in ordine cronologico e quotidianamente tramite l’interprete facevo spiegare loro la scena che avremmo dovuto ricreare, senza che leggessero copioni e questo ha fatto sì che,  così come i protagonisti del film, anche loro stessi non avevano idea di quale sarebbe stato l’epilogo della storia. Quindi immaginate una sorta di continua improvvisazione delle battute e noi italiani davanti al monitor che ci affidavamo a loro senza capire cosa stessero dicendo.”

  • E che clima si respirava? Come l’hanno vissuta loro?

“Il clima era stupendo, nessuna forma di fanatismo o di stress/ansia da prestazione; loro non sapevano nemmeno chi fossi. Addirittura – per rendervi l’idea – nella scena in cui Seydou prepara lo zaino di notte senza farsi sentire dalle sorelle e c’è la sorellina più piccola che se ne accorge e gli dice: “Dove stai andando?”, come avete visto, l’inquadratura inizia su Seydou e poi passa tramite il suo sguardo su Maman per la battuta. Dopo aver dato l’azione, ho iniziato a riprendere la scena fino a quando mi sono girato verso la bambina ma la battuta non è arrivata perché nel frattempo lei era così rilassata sul set da essersi letteralmente addormentata (ride, ndr), perciò abbiamo cominciato a chiamarla per farla svegliare e lei, come se niente fosse accaduto, ha aperto gli occhi e ha recitato. Ed è stato un “buona la prima” perché è esattamente il risultato della scena che vedete nel film. In quel frangente mi è sembrato un déjà-vu dei film del dopoguerra, neorealisti, che ho tanto visto durante la mia formazione. Un momento semplice ed essenziale, tenero e che custodirò per sempre.”

  • Com’è stata la ricerca delle location?

“C’è stato un dolorosissimo lavoro di documentazione con Gennaro Aquino perché abbiamo trovato immagini e video davvero terrificanti. Il film che avete visto è sicuramente molto meno violento della realtà perché se avessi voluto rappresentare tutte le scene seguendo pedissequamente le storie così come me le hanno raccontate, sarebbe stato un problema a livello cinematografico, perciò spesso sono stato costretto a lavorare di sottrazione. Tra l’altro non volevo mostrare troppa violenza ma evocarne l’orrore tramite la profondità e gli sguardi distrutti degli interpreti. Abbiamo ricostruito il villaggio in Marocco, nel deserto del Sahara, e la Libia l’abbiamo ricostruita a Casablanca; poi l’ultima parte del viaggio è stata girata nelle vicinanze delle coste siciliane e lì c’è stato un piccolo incidente di percorso  perché con la troupe eravamo arrivati in Italia già da due settimane per preparare le scene in mare e quindi nel frattempo i protagonisti erano usciti dalla tensione emotiva dei mesi prima andando a nuotare, a giocare ecc perciò quando poi si sono ritrovati sul barcone non sentivano più quell’intensità e quel desiderio di arrivare (ride, ndr).”

Una signora tra i presenti in sala ha concluso il dibattito riflettendo sul fatto che a suo avviso da quello che è a noi visibile i migranti partono da uomini dignitosi ricchi di speranze e alla fine del viaggio arrivano sulle nostre coste, stravolti e maltrattati, senza più quella dignità. “Siamo noi che proiettiamo questo. Loro la dignità non la perdono mai” – è intervenuto Garrone, scatenando un tripudio di applausi – “Anche quando subisce le violenze più atroci, Seydou rimane sempre umano e questa penso sia una buona lezione di vita per noi.”

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