“Te l’avevo detto” della Elkann alla Festa del Cinema di Roma 2023

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Catastrofi ambientali e piaghe sociali. Una descrizione concisa del nostro presente che, estremizzata o probabilmente solo proiettata al prossimo futuro, conduce a un titolo ben preciso: “Te l’avevo detto”, opera seconda di Ginevra Elkann, tornata sugli schermi dopo “Magari” (2019), presentando in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2023 un lungometraggio tristemente attuale di una Roma soffocata da un caldo anomalo durante le festività natalizie.

È come se avesse voluto darci uno spoiler di ciò che sarà, raccontando tramite i suoi personaggi storie di vita drammatiche talmente verosimili, e ahimè note, da creare uno straniamento nello spettatore. Quindi, da un lato un’ambientazione “futuristica” (ma poi non così tanto) e dall’altro un tessuto narrativo che trasuda cronaca e quotidianità. Quest’ultimo è l’aspetto su cui spinge il film della Elkann, che appare l’unico spiraglio scelto o trovato per interessare lo spettatore. Usare la carta della “vicenda che tutti conoscono” o perché vissuta in prima persona o per sentito dire, finisce per coinvolgere sempre, ammettiamolo. Poi, se all’immedesimazione o alla spiccata sensibilità e comprensione di un pubblico attento e cinematograficamente educato, ci aggiungiamo una performance attoriale di spessore (in assoluto quella di Valeria Bruni Tedeschi in Gianna) e le note dissacranti del tipico black humor da pièce teatrale d’altri tempi, possiamo dire che almeno la sceneggiatura ha raggiunto il suo obiettivo principe.     

Ma se la struttura del film, invece, è caotica, non da ritmo, indispone e spesso deconcentra, si perde tutto il vantaggio acquisito con la scrittura. L’assenza per l’intera durata di un chiaro filo conduttore dei tre/quattro ambiti familiari e relazionali che vengono portati avanti parallelamente, disorienta dall’arrivo al significato madre della pellicola (perché no, non è la fede). Perciò, chi è seduto sulla poltrona, percepisce la potenza dell’interpretazione, la peculiare drammaticità delle vite dei personaggi ed è intrigato dalla voglia di comprendere dove condurrà la loro evoluzione. Ma i connotati caratteriali rimangono gli stessi, si esasperano per pochi istanti o si indeboliscono lievemente, però in realtà è tutto fermo ai titoli di testa.

L’idea è quella di trasmettere la claustrofobia di chi è imprigionato nella propria mente e convive con tormenti, dipendenza, disillusioni e violenza senza riuscire a trovare la via di fuga, il luogo in cui finalmente respirare. Bello nella teoria, se ci pensiamo. Tuttavia, a ricordare specificatamente ciò allo spettatore c’è solo il tema del caldo afoso a Roma, il quale rimane però sempre in secondo piano. È sufficiente un “Quanto fa caldo” e gli attori sudati in modo esagerato a rendere in toto il messaggio intrinseco del film? Mi pare ovvio di no. Certo, ci sono le ricadute, i fallimenti, le azioni imprevedibili e impulsive ma queste prima facie appaiono semplicemente volte alla delineazione puntuale dei protagonisti.   

Soltanto quando sta per volgere al termine – tra l’altro lasciando in gran parte le storie interrotte con insensato surrealismo – la nube rossa data dall’eccessivo calore che impedisce ai personaggi di trovare la strada giusta per salvarsi da quella condizione umana, porta il pubblico sullo stesso binario della regista, giungendo a destinazione. Ma è decisamente troppo tardi.  

Il progetto ha un gran potenziale di base, un ottimo cast, un soggetto e una sceneggiatura che funzionano per attualità e verve e avrebbe potuto colpire nel segno, ma purtroppo si va solo ad aggiungere alla sequela di film italiani drammatici che facendo zapping in tv o scrollando sulle piattaforme potresti scegliere di guardare leggendone la trama, ma che probabilmente non ti entusiasmerà più del normale e non rivedrai di certo.

 

Durata:100 min
Distribuzione: Fandango Distribuzione
Fotografia: Vladan Radovic
Montaggio: Desideria Rayner
Produzione: The Apartment, Rai Cinema

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