L’identità nascosta del figliarcato

Arte, Cultura & Società

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In questi giorni si è acceso uno sterile quanto anacronistico dibattito sul patriarcato, cavalcato anche da alcuni orientamenti politici. Come ha affermato il noto antropologo Galimberti il patriarcato non fa parte della nostra cultura da più di cento anni. Non è possibile che tanti giornalisti e trasmissioni televisive, in assenza di argomenti, perdano tempo a dare risonanza ad affermazioni senza fondamento alcuno, un po’ come parlare del sesso degli angeli. Tali dibattiti sono gravi e fuorvianti perchè allontanano l’attenzione dalle cause reali del problema,  che non è certo il patriarcato, ma la grave crisi di vuoto affettivo, educativo e formativo legato alla disgregazione del ruolo genitoriale.  Questa disgregazione è dovuta a vari fattori: in primis  alle influenze di modelli familiari disfunzionali propugnati dai media e dalle fiction che riescono spesso a plasmare i comportamenti, poi alla deresponsabilizzazione dei genitori che   non si preoccupano più di seguire ed educare personalmente i figli fin dalla nascita, ma già nei primi mesi di vita li affidano al nido per riprendere a lavorare, spezzando così prematuramente quel legame fisico, affettivo ed  emotivo che è fondamentale nei primi tre anni di vita del bambino per  delinearne il carattere.  Il bambino, staccato così presto dal nucleo familiare, subisce un vero e proprio trauma da abbandono che avrà sicuramente ripercussione sulla formazione del suo carattere, instillando insicurezza e paura d’essere lasciato solo. Non va poi sottovalutata  l’influenza negativa esercitata dai  media e dai social durante l’adolescenza, che diventano , in assenza di una guida genitoriale adeguata, modelli educativi e di comportamento. Questa nuova tecnologia propone ai giovani una visione alterata della realtà, immagini di violenza inaudita e la banalizzazione del dolore e delle emozioni; soprattutto i video giochi sono veicolo di modelli  comportamentali violenti ed irreali. I ragazzi vengono letteralmente abbandonati a se stessi e sono in balia di telefonini incontrollati dagli adulti,  sui quali possono accedere tranquillamente, a causa della mancanza di censura, a qualsiasi immagine di violenza. I cellulari sono diventati una sorta di balia per i bambini di appena un anno e una sorta di  baby sitter per quelli più grandi. Eppure ci sono importanti studi di psicologi e psichiatri che avvertono sulla pericolosità di esporre i piccoli in modo incontrollato a questi sistemi, i danni per la salute sono notevoli.  L’assenza di una figura paterna autorevole ed un sistema educativo basato sull’amicizia e sulla comprensione a tutti i costi influisce negativamente sia sul ruolo genitoriale e sia sulla formazione emotiva e sociale dei giovani, creando giorno dopo giorni dei soggetti deboli, figli di una larghezza di vedute sbagliata, che spesso non riescono a stabilire un giusto contatto con se stessi e con gli altri. L’adolescenza accresce le distanze affettive, la famiglia si disgrega, le pretese e gli interessi prevaricano ogni risorsa affettiva  ed a questo punto come sostiene Crepet: “abbiamo creato una società fondata sul figliarcato”. Un fenomeno all’insegna di un susseguirsi di relazioni affettive problematiche e frustranti che sfociano nella ribellione, nella morbosa ricerca di un rapporto fusionale, ma anche nel silenzio, quel silenzio che prima o poi esplode in un rapporto conflittuale tra amore e possesso e che purtroppo a volte diventa femminicidio. Tornando all’influenza dei media, se realmente  si vuole comprendere ed affrontare in modo costruttivo il dramma dei femminicidi, questi devono offrire modelli comportamentali positivi e lo stato e la società tutta devono ridare centralità educativa alla famiglia che da tempo vive una profonda crisi. E’ necessario che le leggi diano alle madri lavoratrici  la possibilità di crescere i figli senza affidarli a terzi e che anche al padre vengano riconosciuti permessi per condividere e seguire con tutta le attenzioni che necessitano i propri figli, come accade nei Paesi del nord Europa. La violenza si combatte investendo nel sociale, affiancando ai giovani genitori inesperti anche il supporto di psicologi, medici e puericultrici. Lo Stato ha il compito di approvare leggi che tutelino i minori dalla violenza di internet, deve cominciare ad investire sul sistema educativo e sul suo ruolo nella formazione emotiva e sociale dei giovani, oggi lasciata a se stessa, attraverso l’opera mediocre di figure quasi improvvisate. Non servono scarpette rosse, manifestazioni silenziose, sfilate con candele in mano e salotti televisivi con tanti improvvisati esperti che si vestono da inquirenti, quando di fatto, fra tante parole, nulla può salvare la prossima vittima.  Basta con i sentieri già battuti inutilmente, bisogna abbandonare i carrozzoni con tutti i burattini ed i burattinai. Non ci può più interessare la spettacolarizzazione della psicologia di un delitto, le manipolazioni, i maltrattamenti, la scena del delitto e la vita privata dell’omicida, della vittima, dei parenti e degli amici, questa società ha bisogno di capire, educare e di cambiare i giovani supportando le famiglie tutte, ma in particolar modo quelle che vivono situazioni di disagio economico e sociale. Lo Stato deve dare delle opportunità concrete per poter rivedere e ricostruire una società pensante e non schiava del futile e dei mercati. Abbiamo bisogno non dell’ educazione civica, ma di chi insegna l’amore, il rispetto, la fede, la comprensione e tutto quello che deve essere alla base di qualunque rapporto fra persone umane. C’è bisogno di riumanizzare questa società sempre più lontana dal voler comprendere la natura e le esigenze altrui, questa società che non sa più amare, perché ha da tempo abbandonato quella profonda ricerca che porta alla crescita interiore personale. Bisogna investire nella vera scuola dove si formano le menti umane, attraverso i giusti insegnamenti e le giuste figure, non più solo cultura e nozionismo, ma anche educare all’amore, come nativa vocazione dell’essere umano, per promuovere crescita e la libera scelta della felicità. Il femminismo è l’aspetto politicizzato più riduttivo del processo di crescita umana di una società civile, criminalizzare la figura maschile, creare competizione, infondere paura, dubbi e sospetti sulle cose più banali, minare i ruoli e destabilizzare la famiglia senza ottenere alcun risultato nel lungo tempo, dovrebbe far capire che si sta sbagliando tutto e soprattutto che “il femmincidio si concretizza sempre nell’incontro di due vittime, una per mano di un assassino e l’altra per volere della perversa deriva di questa società”.

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