Anche Gigi Riva nel Pantheon del calcio, lui sardo d’adozione e “Amico fragile”

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Amico fragile. Una canzone di De André che gli calzava a pennello. Lui, un uomo, un atleta ligio, fermo, deciso ma fragile nell’anima soprattutto dopo il forzato e doloroso addio al calcio. Un rivoluzionario per l’epoca, un giocatore che ogni volta che tirava in porta, col suo infallibile sinistro, erano dolori per tutti tanto che – diceva Gianni Brera di lui – “il destro lo usava solo per salire sul tram”. Fumatore incallito anche da giocatore, non poteva che nascere il 7 Novembre, giorno dell’inizio della Rivoluzione d’Ottobre dove i bolscevichi assaltarono il Palazzo d’Inverno, rivoluzione che poi portò al potere Lenin.

Gigi Riva, una figura leggendaria, paragonabile a un eroe omerico o a un dio greco per i suoi lineamenti e per il suo volto di bravo e bel ragazzo, rappresenta un simbolo di bellezza e di rettitudine morale. Ricordato per il suo classico ruolo di ala con la maglia numero 11, piuttosto che di centravanti con il numero 9, Riva incarnava lo spirito e la tenacia della terra sarda, sebbene fosse originario di Leggiuno, nel varesotto. La sua figura è stata immortalata nella celebre canzone “Preghiera in gennaio” di Fabrizio De André che però dedicò a Luigi Tenco, un testo che risuona profondamente con coloro che vivono con coscienza pura, qualità che Riva possedeva in abbondanza.
Nonostante la sua fama, Riva ha vissuto una vita riservata, caratterizzata da un’umiltà che lo ha reso ancor più ammirato. La sua timidezza non era un segno di debolezza, ma piuttosto un’espressione della sua profonda umanità e sensibilità. Era un uomo accessibile e di grande statura morale, che dovrebbe essere ricordato non solo per le sue prodezze sportive ma anche per il suo comportamento esemplare e la sua umanità.
Riva viene descritto come un maestro, un esempio da seguire, il cui insegnamento dovrebbe essere portato avanti come un testamento spirituale e una fondazione virtuale. La sua eredità non è solo nei suoi gol, ma soprattutto nel modo in cui ha vissuto la sua vita, incarnando l’ideale dell’essere una persona per bene, autentica e misurata.

Quando vinse lo scudetto l’allenatore Scopigno era con le lacrime agli occhi. oggi nessuno versa una lacrima per una vittoria, men che meno gli allenatori che, piuttosto, si sfregano le mani per l’irrobustimento dei propri conto corrente.

Per la prima volta un’isola vinceva lo scudetto, perché lo scudetto lo hanno vinto da Sassari, passando per Oristano, Alghero, Olbia e Nuoro, fino ad arrivare a Carbonia e a Cagliari. una storia di riscatto sociale, quell’isola di nuraghi, di formaggi pecorini, di natura ancora incontaminata ma anche di banditi del nuorese della Barbagia dove i rapimenti erano all’ordine del giorno tanto che nove anni dopo lo storico scudetto l’anonima sarda pensò bene di rapire Fabrizio De André e Dori Ghezzi. Riva ha regalato un’occasione di riscatto, la prima volta di una squadra del sud che vince lo scudetto. E che Sud, mica la Sicilia che se non fosse per lo stretto di Messina sarebbe un appendice attaccata alla nazione, ma una regione “lontana”, forse gli antipodi di un’Italia post sessantottina coi bagliori del terrorismo e con tutto l’annesso che ne conseguì negli anni 70.

Il suo sinistro mancino non perdonava soprattutto sui tiri rasoterra oltre ai colpi di testa in tuffo e alle celebri rovesciate simili a quella immortalata sulle figurine “Panini” di Carlo Parola: chissà cosa ne sarebbe stato del recente “coccodrillo” dietro al barriera, facile che lo avrebbe bucato tanto era efficace il suo tiro.

Rifiutò la Juve e suoi milioni a palate, rifiutò anche l’Inter per sposare la causa di una terra che lo adottò sin dal primo minuto del suo arrivo per la sua umiltà e, man mano che passava il tempo, anche per la sua bravura sul campo. Ci volle una buona dose di santa pazienza e di resistenza da parte del presidente del Cagliari non lasciarlo andare perché col suo ricavo, probabilmente, avrebbe aggiustato le casse esigue della società cagliaritana, eppure lui preferì rimanere a Cagliari con ingaggi modesti perché la società dei 4 Mori non era quella degli Agnelli, a Cagliari si andava avanti non proprio a pane e acqua ma quasi. Qualcuno gli chiese come mai avesse deciso di rimanere in Sardegna piuttosto di sbarcare altrove a suon di milioni, e lui rispose che, avendo perduto i genitori da bambino, fu adottato dalla Sardegna e per questo aveva un sentimento di riconoscenza verso questa terra, una decisione che solo i grandi uomini avrebbero potuto adottare.

Lo ricordiamo qui a Bari per la vittoria conseguita nel mitico “Amsicora”, lo stadio che precedette il Sant’Elia più moderno e all’avanguardia, per 2-0 proprio col Bari, vittoria che sancì la matematica vittoria dello scudetto, guarda caso, proprio con un gol di Rombo di Tuono cui Pasquale Loseto nulla poté fare, mentre al Della Vittoria, all’andata, lo stesso “Ualino nostro” non gli dette scampo, mordendolo alle caviglie evitando di mandarlo in gol. Da lì, racconta Pasquale Loseto, nacque una bella amicizia anche perché Riva, con le caviglie martoriate, da signore qual era, non si arrabbiò più di tanto come avrebbero fatto gli attaccanti di oggi, anzi si complimentò con lui tanto da regalargli la sua maglia fino a proporgli di raggiungerlo a Cagliari, ma Toneatto, appena subentrato nel Bari al posto di Oronzo Pugliese, lo ritenne incedibile: chissà cosa ne sarebbe stato del nostro Pasquale Loseto in Sardegna.

Fatale lo strappo alla coscia destra in occasione di Cagliar Milan (1-3) del campionato di serie A il primo febbraio del 1976, che lo costrinse all’addio al calcio, complice anche gli altri gravi infortuni subiti e dai quali, a dirla tutta, non si è mai ristabilito al 100%. All’epoca, si sa, non c’erano i mezzi curativi di oggi dove uno strappo si cura in 15 giorni, una frattura in un mese e un crociato in 3-4 mesi, all’epoca un crociato equivaleva alla fine della carriera. Lui che quando rimaneva a terra per un infortunio, non bluffava mai, le sue vere smorfie di dolore dovrebbero essere di insegnamento ai calciatori di oggi a cui basta un colpo d’aria per stramazzare al suolo con le plateali mani al volto manco avessero ricevuto un cazzotto in faccia. Al solo paragone rabbrividiamo.

Lui ha incarnato l’idolo per antonomasia nell’Italia calcistica in tutte le sue latitudini, dalle strade delle città vecchie, alle periferie passando dai campi di calcio di tutte le categorie.

Riva nelle leggenda del calcio non solo perché “Gigi Riva” ma anche perché fu protagonista (peraltro con un gol) della partita del secolo, la partita leggendaria, quella “Italia Germania 4-3” di Messico 70 che ha contaminato di emozioni generazioni su generazioni. Non ha vinto tanto, diciamo che ha vinto poco in relazione al suo valore, del resto chi decideva – e chi decide tuttora – di rimanere a Cagliari è consapevole di rimanere ai margini del calcio che conta e lui, antidivo in assoluto, preferì rimanerne fuori. Rimane ancora inviolato il suo record di gol segnati in Nazionale, ben 35 in sole 42 gare, quasi un gol a partita, e chi è riuscito, ma soprattutto chi, mai, riuscirà ad emularlo? Intravedendo il calcio di oggi, il sospetto è che il record di Riva continuerà ancora a lungo, soprattutto in un’epoca storica dove razzismo, fiumi di denaro, calcio spettacolo d’Arabia, magliette improbabili che snaturano la storia delle società, fiumi di danaro, plusvalenze, imbrogli e sotterfugi la fanno da padrone, un calcio che ha perduto il suo fascino antico.

Molti ragazzini alle prese con i Supersantos e i Supertela, cercavano irriducibilmente di emularne le gesta nei giardini pubblici o nei campetti polverosi delle periferie, ma anche nelle spiagge, negli oratori e nei vicoli delle città vecchie, quelle “dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi perché ha già troppi impegni per scaldar la gente ad altri paraggi” per dirla alla De André di cui “Gigirriva” era un fan, un motivo in più per adorarlo. Faber cantava gli ultimi, i drogati, le prostitute, chi era ai margini del mondo, Riva giocava per le gente cagliaritana, sarda, ancora ruvida come le rocce del Gennargentu poco abituata alle luci. Oggi, purtroppo, altri ragazzini cercano di emulare ben altri calciatori, ricchi, ignoranti, vigliacchi, senza umiltà. Perché il mondo va così.

Il Pantheon del calcio, da oggi, sarà più ricco, una ideale squadra la si potrà allestire con la panchina lunga, uno squadrone che potrebbe fare razzia di tutti i campionati.

Fa’ buon viaggio, campione, la nostra unica e disarmante felicità è che da oggi tu, Rombo di Tuono, sarai in ottima compagnia e già immaginiamo le gare che si disputeranno lassù ed i tuoi gol in tuffo o coi chirurgici rasoterra.

Massimo Longo

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