Diritti sanciti dalla Costituzione come salute, assistenza e istruzione, già oggi non pienamente esigibili in tutte le regioni, se passasse l’autonomia differenziata diventerebbero residuali. Si avrebbe uno stato sociale minimo residuale, in cui si abbassa il livello di tutela generale e si alza il livello di tutela assicurativa di carattere privato.
E sarebbe la fine del contratto collettivo di lavoro. Per la dirigente sindacale la qualità del benessere diminuirebbe per tutti, anche per i cittadini e le cittadine delle regioni più ricche, allora per evitare che tutto questo accada occorre far aumentare la consapevolezza dei rischi che tutti e tutte È esattamente così. Ricordiamo tutti che in Italia, con la riforma del Titolo quinto della Costituzione, sono stati introdotti i Livelli essenziali di assistenza nell’esercizio del diritto alla salute.
I Lea sono interpretati come quel complesso di interventi, di servizi, delle attività e delle prestazioni integrate che la Repubblica deve assicurare, con carattere di universalità su tutto il territorio nazionale. Sappiamo, e ce lo dice lo stesso rapporto Svimez, che non tutte le regioni in Italia raggiungono lo stesso grado di soddisfacimento dei livelli essenziali delle prestazioni che fanno parte della rubrica di quelli che sono inclusi tra i diritti fondamentali relativi al bisogno di salute delle persone. Quindi già oggi l’assistenza sanitaria non è uniforme: nonostante la norma costituzionale preveda l’universalità del diritto alla salute, esiste una forte differenziazione e sperequazione territoriale. La situazione non potrà che aggravarsi. Il processo accelerato di autonomia differenziata che si sta definendo porterà ad assumere non solo per i livelli essenziali di assistenza in salute, ma anche, ad esempio, per i livelli delle prestazioni sociali, socio-assistenziali e socio-sanitarie lo stesso paradigma che oggi vige per i Lea.
Succede purtroppo che, se non adeguatamente finanziati, i livelli essenziali di assistenza anziché essere la soglia minima universale da garantire a tutti i cittadini, diventano il trend a cui tendere e nella diversa capacità fiscale e organizzativa delle regioni: abbiamo cittadini e cittadine che hanno diritti garantiti e altr, altre a cui quei diritti non sono garantiti. È importante riflettere sull’analisi che fa la Svimez: all’interno dei dati generali che fotografano i differenziali e i divari territoriali in termini di salute, c’è una macro dominante che riguarda proprio le regioni del Mezzogiorno, sono tutte al di sotto della foglia del 50% di raggiungimento dei livelli essenziali, soprattutto per quel che riguarda la prevenzione.Intanto è bene sapere che il nostro Paese spende meno del 5% complessivo di risorse in prevenzione, obiettivo che l’Unione europea considera soglia minima per garantire esiti di salute ottimale della popolazione.
Quindi bisognerebbe intanto riqualificare i capitoli di spesa che guardano questo segmento. Sappiamo che esiste un problema che riguarda la dotazione strumentale delle aziende sanitarie. In questi giorni stiamo leggendo i dati che vengono pubblicati dal ministero della Salute sull’obsolescenza dei macchinari della diagnostica attualmente nella disponibilità del servizio sanitario nazionale. Questo colloca gran parte dell’attività di prevenzione sull’offerta privata, perché i costi di manutenzione sono molto alti e le liste di attesa sono aggravate anche dal fatto che spesso questi macchinari devono andare in manutenzione, quindi non sono disponibili per lunghi periodi. Contemporaneamente abbiamo bisogno di più specialisti e di più personale per garantire l’attività di profilazione attraverso screening capillari indispensabili per la prevenzione, e il potenziamento del territorio rispetto alla rete degli acuti e alla lungodegenza, cosa che doveva essere favorita dalla riforma della sanità di territorio prevista dal Dl 77 con le nuove case di comunità, completamente scomparsa dai radar dell’agenda del governo che sta molto rallentando l’attuazione di questo capitolo del Pnrr.
Per prevedere cosa può capitare basta guardare ciò che accade oggi nella relazione tra pubblico e privato: uno spostamento del mercato del lavoro sanitario tra retribuzioni più congrue e retribuzioni meno congrue. Questo è uno dei fattori di scelta fondamentale che porta tanti professionisti a operare in ambivalenza o nel settore pubblico o nel settore privato, a seconda anche delle condizioni di lavoro ma soprattutto delle condizioni di remunerazione. È il fenomeno dei cosiddetti gettonisti. Ma anche lo spostamento di gran parte del personale sanitario con competenze avanzate dalle strutture pubbliche alle strutture private, incentivato da superminimi e premi ad personam, ci dicono chiaramente che di fronte ad un’offerta differenziata in ambito salariale, le persone scelgono condizioni di trattamento di miglior favore. Se questo paradigma diventa su scala nazionale e cioè se passa l’idea che, a seconda dell’indice del costo della vita, in un territorio è possibile differenziare le retribuzioni anche andando ad intervenire sul trattamento fondamentale, allora questo orienterà il mercato del lavoro in sanità verso quelle regioni o anche all’interno delle stesse regioni, verso quei territori o aziende che riescono a garantire remunerazioni più alte.
Ovviamente questo comporterebbe il superamento del sistema contrattuale, ma soprattutto di tanta normativa nazionale che influisce sul rapporto di lavoro pubblico nel settore sanitario e che vincola l’utilizzo dei fondi della contrattazione aziendale decentrata. Se saltassero questi due vincoli è chiaro che non esisterebbe più il contratto collettivo nazionale. Sì, per la distribuzione del Fondo sanitario nazionale sono stati utilizzati criteri che non sempre hanno premiato le effettive esigenze sociali del Mezzogiorno. Basti pensare che è stata assegnata una quota più alta a quei territori con il maggior numero ultra sessantacinquenni, penalizzando così le regioni che avevano una natalità più alta che per ragioni socioculturali sono quelle del Sud. Se come criterio di redistribuzione del Fsn si continua a utilizzare quello della “spesa storica” si perpetuano i differenziali di ripartizione della spesa. Con l’accelerazione dell’autonomia differenziata, che dietro ha l’obiettivo del federalismo fiscale, e uno storico sotto-finanziamento della spesa in conto capitale, questo divario e questo differenziale territoriale non può altro che aumentare.
Il contrario di quello che affermano l’articolo 32 della Costituzione, la Legge 833 del ‘78 e anche la parte che riguarda la tutela del diritto alla salute dei trattati comunitari, rompendo uno dei principi base della Costituzione europea che è la coesione sociale. L’autonomia differenziata ha, a mio parere, profili di incostituzionalità e contrasta con le indicazioni che derivano dal diritto dell’Unione europea. Con l’abbassamento di standard, di qualità e di obiettivi di servizio assegnati ai livelli essenziali delle prestazioni sociali. Si tornerebbe, quindi, all’idea di uno Stato sociale minimo residuale, in cui si abbassa il livello di tutela generale e si alza invece il livello di tutela assicurativa di carattere privato. In fondo è quel che sta già accadendo in sanità. Non c’è dubbio che laddove la spesa pubblica arretra, l’unico modo per compensare il soddisfacimento dei diritti è quello di aumentare la spesa privata. Per questo noi continuiamo a dire che l’autonomia differenziata è il più grande disegno di lotta di classe fatta dai ricchi nei confronti dei poveri. Bisogna fare in modo che il disegno dell’autonomia differenziata sia fermato.
La Cgil ha già annunciato che siamo in campo per contrastare in ogni modo il disegno Calderoli, ma c’è bisogno anche di una consapevolezza diffusa tra le cittadine e i cittadini: quel disegno non porterà il miglioramento delle condizioni di vita e di benessere che viene annunciato. Al Sud ne sono consapevoli visto che già vivono sulla propria pelle gli effetti dei divari territoriali, inizia a crescere una consapevolezza anche tra i cittadini del resto del Paese: la consapevolezza che forse l’autonomia differenziata, proprio perché abbassa lo standard minimo di assistenza non essendoci più la garanzia di uniformità nazionale, rischia di spostare dal pubblico verso i costi privati l’idea di soddisfacimento della salute e dei bisogni sociali.
Allora bisogna utilizzare questa consapevolezza che sta crescendo nei confronti dei rischi per proporre un modello alternativo, tornando ad affermare un principio sacrosanto, cioè che il servizio sanitario nazionale non solo è pubblico ma deve essere anche universale e qualità.
Marcario Giacomo
Editorialista de Il Corriere Nazionale
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