Educare alla speranza. Il segreto della donna di Sarajevo che ha imparato a non odiare

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Un imam le disse: «Se imparerai ad amare, Dio ti parlerà: sarà lui a dirti se pregare in una chiesa o in una moschea». Il vero educatore fa nascere la verità, senza imporre

Molti giornalisti riferiscono  d’aver conosciuto e incontrato in uno dei loro viaggi in Bosnia una donna piena di luce. Quella donna, durante la guerra degli anni Novanta, ha vissuto dentro l’assedio di Sarajevo, con il marito a combattere al fronte per difendere la città e un bambino molto piccolo da accudire. Uno dei giornalisti racconta:” Ho passeggiato a lungo con lei per la città. Mi ha portato vicino al mercato coperto, mi ha indicato il punto in cui si metteva a vendere i suoi regali di nozze, per procurare del cibo a suo figlio. Mi ha portato al tunnel di Sarajevo, sotto l’aeroporto, di cui restano pochi metri: è un budello claustrofobico, nel quale si deve stare chini per camminare.

La donna, suo figlio e sua suocera lo hanno percorso per centinaia di metri, per sbucare nella terra di nessuno, rischiando la vita, alle spalle della linea dell’esercito serbo che assediava la città. Dopo un viaggio pazzesco, quella donna è arrivata prima in Germania e poi qui in Italia, dove è stata accolta e dove suo marito l’ha raggiunta una volta finita la guerra. La guerra per lei è un incubo che fatica ad andarsene. Ha perso molte persone. Un giorno mi ha indicato un ponte sulla Miljacka, il fiume di Sarajevo. Mi ha detto che una sera, su quel ponte, una sua amica si è data appuntamento col suo fidanzato: avrebbero dovuto sposarsi pochi giorni dopo. Ma il matrimonio non ci sarebbe mai stato: proprio quella sera, una bomba ha spazzato via le loro vite. Nonostante ciò che ha passato, la donna è tornata a vivere a Sarajevo con suo marito. «A volte mi chiedono chi me lo ha fatto fare», mi ha detto. «Molti, durante e dopo la guerra, da Sarajevo se ne sono andati per non tornare più.

Altrove si vive meglio. Anche oggi c’è chi vorrebbe andarsene. Ma io mi guardo intorno, passeggio per il centro. Vedo il locale dove siamo stati io e mio marito la prima volta che siamo usciti insieme. Vedo la stradina dove abbiamo passeggiato la sera, tenendoci per mano. Vedo i luoghi dove ci incontravamo coi nostri amici, per far festa tutta la notte. Questa è la mia città, la nostra città. Se non la facciamo vivere noi, la nostra bella città, a chi dovrebbe toccare?». Ciò che di quella donna colpisce  è la totale assenza di odio nelle sue parole. «L’esercito serbo ci ha attaccato, ci ha accerchiato, di ha bombardato; i cecchini non ci hanno dato tregua per anni. Io in guerra ho perso amici e parenti. Ma non odio nessuno». L’ho guardata stupito. «E come fai? Come ci riesci?». Lei mi ha indicato le montagne intorno a Sarajevo: «Io ho vissuto in un assedio, lo so cosa vuol dire stare in una prigione a cielo aperto. Per questo, adesso, non consento più a nessuno di imprigionarmi. Neanche al mio odio. Perché l’odio è la gabbia peggiore». Sono parole che mi hanno segnato profondamente. Mi sono chiesto quale percorso avesse alle spalle per essere arrivata fino a lì. Chiacchierando, ho scoperto che è figlia di una donna musulmana e di un uomo di etnia croata e di religione cattolica.

Del resto, la Bosnia è un Paese meravigliosamente multietnico: nel centro di Sarajevo la moschea più importante dista pochi minuti a piedi dalla basilica ortodossa e dalla cattedrale cattolica. I matrimoni tra etnie e religioni diverse, soprattutto prima della guerra, erano all’ordine del giorno. La donna che in quel momento mi parlava era stata una bambina figlia di un matrimonio così: i due genitori pregavano ciascuno un Dio diverso. Ai tempi, quella bambina e la sua famiglia abitavano un paese tra le montagne. La bambina, curiosa e piena di domande come tutti alla sua età, cominciò a interrogarsi su quelle differenti religioni che erano presenti nella sua famiglia, dove tradizioni diverse si intrecciavano e le festività di entrambi i culti venivano celebrate.

Così, un giorno, Dudu decise di andare dall’imam del suo paese. «Senti, signor Imam, devo farti una domanda». «Dimmi».«Signor imam, io ho un dubbio. Mi papà crede in Dio, in suo Figlio Gesù Cristo e nello Spirito Santo. Mia mamma invece dice che l’unico vero Dio è Allah, e Maometto è il suo profeta. Tu cosa ne pensi? Secondo te, dove dovrei pregare? In chiesa oppure in moschea?».

L’imam sorrise benevolo. Le rispose con un’altra domanda, come fanno le persone sagge. «Nella tua classe, a scuola, non c’è qualcuno che gli altri prendono in giro?», le chiese.

«Sì. Una mi compagna se ne sta spesso da sola». «Allora tu domani vai da lei, parlaci, state un po’ insieme, coinvolgila. E, senti, nella tua classe non c’è qualcuno che fa fatica in qualche materia?».

«Sì. Il mio compagno di banco fa fatica in matematica. Dice che ci capisce molto poco».

«Allora invitalo a studiare con te. E quando sei a casa, non litigare troppo con i tuoi fratelli. E dai una mano a tuo papà e a tua mamma senza troppo lamentarti, quando ti chiedono aiuto».

«Va bene, signor imam». «Ti lancio una sfida. Impara ad amare. Ma non con le parole, con le azioni: ama con la vita. Amare è una palestra. Se imparerai ad amare, Dio ti parlerà: sarà lui a dirti se pregare in una chiesa o in una moschea». Ascoltando questo racconto, ho capito il segreto di quella donna. Ho pensato a quanto è viziata la comunicazione in cui siamo immersi. L’11 settembre del 2001 avevo vent’anni: l’attacco alle Torri Gemelle ha segnato tutta l’epoca successiva. Mi sono reso conto, immaginando il dialogo tra quell’imam e quella bambina curiosa, di quanti messaggi che riceviamo descrivono le identità religiose più come fonte di divisione e di violenza che come strumento di dialogo: l’Islam contro l’Occidente, i cattolici conto i laici. Ma, più in generale, quanto spesso la propria identità viene affermata contro l’altro? Quanto spesso abbiamo bisogno di creare un nemico per affermare identità fragili, senza radici? Quella bambina e il suo imam mi hanno insegnato che l’identità è una ricchezza, ma che un’identità consapevole e ben sviluppata non ha mai paura delle altre identità, non si chiude al confronto, anzi, ne esce arricchita. Un’identità sana non esclude altre identità. Costruisce ponti, abbatte muri. Perché una identità può avere molte sfaccettature: non è un pezzo di granito, è un giardino accogliente che si espande e ospita germogli sempre nuovi. Quell’imam è stato un grande educatore, ha avuto lo sguardo giusto. È sfuggito alla tentazione di imporre una verità per lui facile a una bambina, per scegliere il sentiero impervio del senso critico e della libertà. Un grande educatore non dà mai risposte preconfezionate, preferisce spingere l’interlocutore a riflettere. Un grande educatore non manipola, preferisce tenere aperte le discussioni. Un grande educatore non afferma certezze, ma dona strumenti utili ad acquisirne. Non costringe verso una meta, ma dona una bussola. Un po’ come faceva il filosofo Socrate, che spingeva le persone a trovare autonomamente la verità attraverso le sue domande. La verità è dentro di noi: non ci servono insegnanti narcisi che la calino dall’altro, ma insegnanti levatrici che ci aiutino a partorirla.

Marcario Giacomo

Editorialista de Il Corriere Nazionale

ph aleteia.org/

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