La grande bellezza

Cinema

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La grande bellezza e Jep Gambardella cosa hanno in comune? Per farsene una prima idea si pensi al Bartleby di Melville il cui “preferisco di no” diventi “preferisco il nulla”. Vediamo come e il perché.

E’ bene precisare che “La Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino vanta un nutrito elenco di premi vinti tra Nastri d’Argento, Golden Globe, Bafta, David di Donatello e ne tralasciamo, probabilmente, alcuni fino all’Oscar 2014 come miglior film straniero: Jep è proprio in gamba non a caso si chiama Gambardella: sembra nulla ma è col “Nulla” che vince la statuina d’oro.

Jep Gambardella: maschera teatrale

La pellicola si dipana in un flusso coscienza alla Joyce e consente al personaggio, che come vuole l’etimo di ‘persona’ è una “maschera teatrale”, di nascondere il suo vero volto in luccicanti e turbinose feste innaffiate da bollicine e avviluppate in chiacchiere mondane.

Jep è la maschera per eccellenza e Paolo Sorrentino fa del suo film l’essenza della settimana arte: il trionfo della rappresentazione: l’incipit sotteso al racconto è riconducibile al “ciò che non siamo ciò che non vogliamo” o “spesso il male di vivere ho incontrato” di Eugenio Montale.

Gambardella e la ricerca di sé stesso

Inizia, di fatto, con il migliore Louis-Ferdinand Céline del “Viaggio al termine della notte”: “Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario…Uomini è tutto inventato, nient’altro che una storia fittizia” e aggiunge Céline “Basta chiudere gli occhi”  ed è quello che Jep sa fare al meglio.

Jep ha deciso di non vedere cosa c’è “dall’altra parte” di quella che è diventata la sua vita racchiusa nel vortice della mondanità: una coazione a ripetere che gli consente di non fare i conti col sé.

Il nulla dalla letteratura al cinema

Leopardi non è citato nel racconto eppure il suo “naufragare m’è dolce in questo mare”, che richiama “L’Infinito” con cui la finitezza umana si confronta da sempre, attraversa ogni frame di Sorrentino e fa il paio col senso del Nulla che è il tema del pensare umano di ogni tempo e del film stesso.

E’ negli interstizi di questi momenti immersi nel Nulla di toilette e assordanti vacui discorsi a gogò che “le memorie” emergono “dal sottosuolo”: Dostoevskij non è il solo nume tutelare della trama che spazia da Stendhal a Flaubert, e naturalmente Proust: il primo a fare del ‘tempo interiore’ il protagonista della “Recherche” insieme alla “memoria involontaria” che emerge nella tazza da thè che avvolge la “madaleine”: sono le pagine immortali della scrittura che ha cambiato le sorti del romanzo.

L’esperienza della pagina bianca

E che nel film cambia la vita di Jep che così parlava di sé «Mi chiedono perché non ho più scritto un libro. Ma guarda qua attorno. Queste facce. Questa città, questa gente. Questa è la mia vita: il nulla. Flaubert voleva scrivere un romanzo sul nulla è non ci è riuscito: dovrei riuscirci io?».

Nei momenti della sua presa di coscienza sa ancor di non essere Flaubert ma se, prima questa consapevolezza lo rendeva succube del panico da pagina bianca, ora diventa la scaturigine del suo riscatto da quel vortice della mondanità in cui è volutamente precipitato perché il suo scopo non era “essere semplicemente un mondano” egli voleva “diventare il re dei mondani” e non voleva “solo partecipare alle feste” ma “avere il potere di farle fallire” e raggiungere, con esse, il proprio fallimento.

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