Desideranza: poesie di Camilla G. Iannacci

Arte, Cultura & Società

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Il libro di poesie «Desideranza» è stato presente in molte piattaforme e ha raccolto le recensioni che si riportano di seguito.

In «Desideranza» vi è un tentativo perenne di fuga all’indifferenza di chi non ha riconosciuto la profondità della voce:  ‘ho raccolto rose/ogni giorno/e/non le hai viste’; un incontro-scontro con la memoria: l’assenza-presente di un qualcuno-qualcosa che genera combustioni, strappi, una bellezza delirante che vibra. Versi scabri accendono visioni: ‘vive/la rosa/di poco/senso di sé/di un tempo/senza dei’ : essenziale, nuda, dritta alla radice dell’immagine; simboli: ‘la rosa, la radura, l’ape’ abitano e uniscono, come un respiro, la silloge in un abbraccio di pensiero. Scrittura ossuta e palpitante, molto bella ‘Come fiore di cappero’ dal linguaggio asciutto, scabro ed essenziale:

Come fiore
di cappero
radico
d’oro e nuda
la pelle:
marea
l’intride
di rose conchiglie
e legni medusi:
levigo l’attimo.

  • Il pensiero poetante

Se la comprensione dell’essere è una possibilità heideggeriana dell’esistenza, per Camilla, Poesia e Filosofia si pongono come presupposti e termini di un esistenzialismo individuale, utensili autentici e complementari di un’azione tesa a rivelare l’Esserci ed il Poter Essere. Le sue parole, chiavi mutevoli di serrature perentorie, sono infilzate ad una ad una come simboli e monili di un Tempo del Mai che governa lo spazio interiore.
Una scrittura disincarnata in versi sfilati, per corrispondere all’impulso immediato di tornare al ‘primigenio’, spezzando etimologicamente le parole o forzandole nel suono e nel significato.
In una ben dosata successione di sensazioni cariche di sentimenti intensi, la silloge rivela notevoli capacità di contemplazione e immediatezza di figure attraverso un ricco gioco di immagini. I versi brevissimi, spesso monosillabici, rendono bene i palpiti e i nodi dell’anima. Molto fine, bella la forma, un incanto il titolo. Elegante, sommessamente raffinata: vera poesia, piccolo capolavoro. Vi si sente il gusto per i classici, poesia breve, quasi un epigramma, raccolta in spazi essenziali dell’Essere: “poiesis… sublime”.

Avrei comprato rose:
le rose che non ci sono,
le rose che non ho portato.
Avrei portato rose
e di profumo antico:
di Silesio:
rose senza perché,
rose di per sé.
Ho raccolto rose,
ogni giorno:
non le hai viste.

  • La forma poetica

Una suadente immagine emana dalla forma poetica, dai versi, brevi e lunghi per l’onda continua che riescono a creare, come mantice che ti agita e ti rilassa, col suo soffio infine leggero: una poesia colta, curata nella forma, assolutamente originale e molto musicale.

Alternarsi di vuoti e pieni, di presenza e assenza, parole che scivolano una dopo l’altra, come note di violino.

La scelta grafica allungata, gli ‘e’ che congiungono e distaccano immagini di un corpo esplorato in una sorta di carrellata, la rendono sia film che album di immagini evocative: sensualità lieve ed elegante, l’inno al desiderio.
Le sue parole hanno la bellezza e l’eleganza del semplice: i poeti sono sempre più rari e inascoltati:

Non andare,
nel mattino
di rosa
e
di luce,
sicura:
la mimosa
verdeggia
giallo
per poco;
l’ombra
ascolta:
ha voce
di noi:
vivono
le cose
di nulla.

  • L’intervista

– E se l’autrice commentasse i propri versi e non il recensore? O insieme a questi? L’idea mi piacque. E fu accolta con entusiasmo.

Queste note vogliono essere un fedele resoconto di una lettura-commento a quattro mani del librino che il lettore sta sfogliando.

P. – “L’ora che non torna… il giorno lontano… che non avesti”… echi…
A. – No guardi… al “gioco” nobile della ricerca delle radici, delle letture, dei prestiti, delle risonanze, della lezione e formazione non indulgo e non intendo cedere.

P. – Ma è inevitabile… come non pensare a Gozzano nel leggere “avrei comprato rose”, all’Heidegger a proposito di ”evento”, “radura”, l’inequivocabile “da-sein” e poi l’uso del trattino in “l’in-canto!
A – Sì, certo la rosa di Silesio o di Gozzano… anche di Poliziano ma, più semplicemente, è la rosa che mi regalò mia nonna.

P. – La memoria… il ricordo ed il pensiero… quello poetante heideggeriano!
A. – Non nego la mia formazione, echi, risonanze e quant’altro ma le mie sono solo parole… forse… canzonette…

P. – Parole… canzonette… poesia… non poesia…
A. – Croce no!

P. – Non possiamo non dirci crociani…

L’autrice di… canzonette ride di gusto poi si acquieta, improvvisamente, guardando la collina di Bellosguardo.

A. – La “sera”, sì, ho pensato ad Ugo ma, dopo aver scritto, colta dall’“entusiasmo”. Sì, mi piacerebbe sapere di aver scritto poesia. A chi non piacerebbe superare la dimensione del… languore (non quello di Verlaine) ed il lamento…

P. – La ripresa del greco è un vezzo o….
A. – Ho scritto sempre e solo di getto… non so rispondere alle sue domande… le prime dieci poesie in circa due ore. Non credo si possa parlare di vezzo. Anche se… scrivo senza scrivere…

P. – In che senso scusi…
A. – Scrivo solo nella mia mente e per anni ed anni… senza vergare una parola su carta e senza aprire alcun file. Accade poi che io scriva, come dire?, materialmente… solo allora so di aver sempre scritto.
Le parole le vedo rintanarsi nella mia mente, al riparo dal mondo, nascondersi nelle circonvoluzioni del cervello in attesa di far capolino… una volta rassicuratesi che nessuno possa far loro del male…

P. – Come “La conchiglia che si chiude al mare”?
A. – Sì, come la conchiglia.

P. – A proposito del mare… le “insenature bianche di schiuma” e gli “dei nascosti” o “ultimi” ed “il tempo senza dei”… un po’ Omero un po’ Hölderlin
A. – Omero continuo a leggerlo ed Hölderlin lo amo molto. Non si resta immuni… ma siamo noi a non accogliere gli dei.
“Sorriso tenue”, “biancoviso”… l’eco omerico, “siede beffardo e ride” e la “meraviglia”… non posso certo nascondere… non voglio dire che lei abbia torto completamente… ma il gioco potrebbe continuare …“all’infinito”: il Montale in “non scenderai le scale” e “non andare” e lo “sguardo” in Husserl ed anche in Proust…ed il Wittgenstein “del ciò che non si può dire…” nella “parola non detta”. E l’Ungaretti in “accoccolata”. Ed il verso a Dante in “amata, mai amata” e la capra di Saba…
P. – Mi ruba il mestiere?
A. – No, la prendo in giro e mi prendo gioco di me!

P. – Scrive per prendersi gioco di sé?
A. – Anche…

P. – Prima dell’“anche” c’è dell’altro, allora… cos’è?
A. – Non so risponderle, mi creda. Speravo che la forma adottata nella prefazione escludesse una simile domanda.

P. – Una domanda inevitabile.
A. – Inevitabile. Sì, scrivere é inevitabile… come la vita che ci è accaduto di avere.
La scrittura come inevitabilità, come attesa, come segno che accadimenti e persone lasciano nel tempo: “I segni ed il tempo o nel tempo”… mi perdoni Heidegger! La parola è l’“esser-ci”, è esperienza del non-fondamento, è un dis-velare, è il “vivere di poco” come la rosa, è il “non andare sicuri”, è un “cercare” mentre la ruota macinava e macina ancora senza sosta; è, il vivere, come il ronzio di un’ape, è un essere “viandanti”, come dice Nietzsche, nelle vestigia della storia.
Io vivo, più modestamente, come il fiore di cappero negli interstizi dei ruderi e nelle crepe dei muri e so che la parola è perdita e so che la parola non è balsamo.

P. – Mi ha superato in citazioni!
A. – Di che si lamenta? Non è il suo gioco preferito?
Ho accettato la sfida e spero perlomeno di far desistere il lettore da altre interpretazioni e fargli leggere in pace le mie canzonette…

P. – Non sono canzonette…
A. – Ma sono poesie?

Mi impedisce di rispondere mentre la lascio abitare il suo non-luogo (Giacinto Plescia)

 

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