Matteo Molino: Arte e Società per un giovane impegnato

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Nell’articolo che lo scorso 19 settembre questa testata gli ha dedicato (*), il giovane talentuoso scrittore Matteo Molino si è presentato ai lettori allo scopo di valorizzare la sua prima fatica letteraria: “Il Profugo”. Inoltre, impresa o no, guadagni o no, egli ha affermato di non aver mai smesso di credere nell’amore ed in un nuovo umanesimo e per questo lotta con la penna. Viste queste premesse, abbiamo chiesto a Matteo se, con la sua precoce acutezza, possa meditare o meno di accogliere le istanze un’avanguardia: la “Sociurgia” (un termine ibrido, latino e greco, che da societas, ossia «società», + ἔργον, ossia «opera»), di cui è primo interprete e portavoce sul territorio nazionale il Maestro Ettore Gambaretto, titolare dell’omonimo Atelier in Albisola (SV), che, insieme allo scrivente, ha conosciuto nel corso di una importante rassegna culturale. La seguente intervista è dunque l’occasione per proseguire il dialogo con lui, approfondendo quale possa essere, dal suo punto di vista di  giovane intellettuale engagée, la consapevolezza dei cambiamenti radicali nelle forme e nei contenuti dell’arte che attraversano le società contemporanee. Emerge quindi la fondatezza di domande su cosa includere o escludere dalla categoria dell’arte, e si intravedono aspetti che si impongono in qualsiasi analisi dell’oggetto artistico. Fa anche capolino un ulteriore concetto nel campo delle scienze sociali: la “Sociatria” (**).

D: Qual è oggi a parere tuo la funzione sociale dello scrittore?

R: Viviamo in una società in cui, se non sei “self-made”, allora non sei nessuno. Se non sei riuscito a raggiungere la vetta da solo, con le tue sole mani e gambe ed ingegno, non è per la tua sfortuna o perché non ti hanno capito o perché non hai incontrato le persone giuste. È per colpa tua. Ma non possiamo andare avanti così.
In un mondo in cui appoggiarsi agli altri, in cui mendicare il loro affetto e il loro sostegno è quasi un’ammissione di inettitudine, lo scrittore ci deve ricordare che noi non siamo artefici di noi stessi; che chiediamo a gran voce l’Altro, nonostante i suoi e i nostri difetti e imperfezioni. Noi siamo frutto di parole, di gesti, di sguardi; noi siamo parte di una squadra; siamo abitanti non di un immenso mondo che è come un oceano in cui ci perdiamo, ma di un piccolo villaggio in cui siamo dipendenti gli uni dagli altri. Scrittore è colui che apre strade, che spiana sentieri perché le nostre domande, quelle che abbiamo paura di dire per non mostrarci deboli, vengano alla luce; e siano come paletti, in base a cui orientarci nel cammino che tutti insieme facciamo, mano nella mano, verso l’avvenire.

D: L’arte può rappresentare una cura dei mali di questo mondo corrotto?

R: Si, ma solo se si insegna alle persone ad esprimere se stesse attraverso la forma espressiva che a loro più si confà, come la Pittura o la scultura . Dobbiamo spiegare l’arte in un modo diverso: non come insegnamento di meri canoni o stili espressivi da contemplare passivamente, ma mostrando che gli artisti sono innanzitutto persone che si donano allo spettatore, che vogliono coinvolgerlo, che cercano la relazione.

D: La vera arte prevede un codice d’onore per il quale il messaggio sotteso alla propria opera vale per l’artista con lo stesso senso sacro della parola data?

R: Certo. L’arte non deve concepire se stessa al di fuori del mondo, in una dimensione eterea ed ultraterrena; bensì “nel” mondo. L’artista non può esprimere con la sua opera un desiderio di bene e di verità con le sue opere e parole, per poi, nella vita quotidiana , venir meno alla propria missione.

D: L’arte è una risposta concreta alle tante parole vuote di larga parte di intellettuali e politici?

R: Senza dubbio lo scrittore deve invitare chi fruisce della sua opera a non essere uno spettatore passivo, bensì a ragionare e ad imparare a riconoscere e a dare un nome ai suoi sentimenti, emozioni, aspirazioni. Chi ragiona e riflette, pur nella sua piccolezza, pur non avendo potere né ricchezza, diventa immune a un certo tipo di dibattito politico deludente, che tante volte tende a semplificare tutto e ad appiattire la realtà.

D: La vera arte, nel caso tuo la scrittura, ha prima di tutto un valore di rappresentazione o uno di catarsi?

R: Ha un valore di rappresentazione, cioè deve cercare di rispecchiare il più possibile la realtà sia del mondo che dei sentimenti umani, senza però nulla togliere alla fantasia. In una realtà fittizia come quella nata dalla penna dello scrittore, ognuno deve poter riconoscere la propria.

D: Tornando alla seconda domanda, se introduciamo il concetto di sociatria (**), mi pare che anche tu ti ponga sul fronte della sua affermazione nell’arte e con l’arte. Questo nella misura in cui la sociatria, attraverso l’arte, può generare una via di verità, alimentando la mente, rieducare o, quantomeno, scongiurare la crescente e pericolosa carenza di pensiero, oltre che tendere ad avvicinare la persona alla virtù, sino a ritrovare in senso un più ampio un rispetto dell’umanità. Più in generale, c’è l’attenzione posta verso l’apertura ad una visione culturale ampia, dove possibili intersezioni fra gli ambiti morale, artistico, economico, educativo, giuridico, religioso…, se da una parte spronano l’individuo alla risoluzione del contrasto di turno, dall’altra schiudono un percorso di crescita. Che cosa ne pensi?

R: Quello che l’arte deve insegnarci non è a trovare la verità ma piuttosto a cercarla instancabilmente. Il mondo è grande e noi siamo miliardi, ognuno di noi ha una comprensione molto limitata delle cose. L’arte può stimolarci , un questo scenario, è a mettere in discussione quello che pensiamo di sapere per avvicinarci sempre di più agli altri, cercando tutti insieme si avvicinarci al Vero e al Bene lasciando da parte pregiudizi e rancori.

D: Viviamo un’era di repentine mutazioni, contraddittorie e talora devastanti, che si riflettono su espansione demografica, mercati finanziari ed economici allargati, nuove tecnologie e mezzi di comunicazione, ecc. che se da un lato uniscono, omologando, dall’altro dividono e annientano, non garantendo dalle molteplici forme del conflitto. C’è chi ha battezzato questa era “Globantropocene mediatizzato”, ti pare un termine rispondente o una iper-aggettivazione senza costrutto?

R: Mi pare un termine rispondente. Una volta, per l’individuo la cosa più importante era rispettare delle regole sociali, agire conformemente a dei valori condivisi, in un mondo in cui la comunità era ritenuta più importante del singolo individuo.
Al giorno d’oggi, la situazione si è ribaltata.
Da un lato la diffusione della cultura occidentale e del capitalismo liberal-democratico è mondiale. Dall’altro, però, i valori su cui di basava la nostra società sono andati perduti in seguito alla crisi delle ideologie nel Novecento. Oggi non conta più condividere dei valori, bensì uniformarsi alle aspettative degli altri. E i media e la pubblicità che ci circondano ogni giorno ne sono la prova.
Quel che conta oggi è fare capire alla gente che noi non siamo schiavi di questo sistema, ma lo abbiamo costruito e così come lo abbiamo costruito lo possiamo anche cambiare. La posta in gioco è davvero alta: otterremmo un mondo più vivibile,. In cui non siano soddisfatti solo i bisogni del corpo ma anche lo spirito, e ognuno di noi vuole che il suo spirito sia accettato dagli altri per quello che è e non per come il corpo appare esteriormente.

 

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Note:

(*)  Matteo Molino: giovane brillante autore presenta il suo libro “Profugo”.

(**) Sociatria deriva da due termini: sŏcius, che in latino significa “amico” o “alleato”, mentre iatreia deriva dal vocabolo greco che corrisponde a “terapia” o “guarire”.  Nella lingua inglese. il termine “Sociatry” fu ideato da Jacob Levy Moreno, uno psichiatra rumeno, naturalizzato austriaco e statunitense, che, a metà del XX secolo, concepì innovative teorie e metodi basati su una nuova forma di ricerca attiva (action methods), oltre che su un nuovo approccio sistemico della psichiatria sociale. Fu, infatti, il creatore dello psicodramma, del sociodramma, della sociometria e di quella che egli chiamò la sociatria, la cura della società attraverso il gruppo.

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