UE, urge la rotazione tra mais e grano nei terreni italiani

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L’Unione europea che, come più di qualcuno l’ha definita, è “quel sinuoso intreccio di 27 nazioni unite per affrontare problemi che da sole non avrebbero mai avuto”, si è trasformata ormai in un palcoscenico in cui le decisioni “trasversali” sono la moneta corrente. L’ultima mossa, orchestrata dalla sede di Bruxelles, giunge come un pugno sul tavolo dell’agricoltura, scuotendo le fondamenta delle coltivazioni in Italia: blocco annuale per la semina dei chicchi.

Turnazioni cicliche nei campi come cura alle scosse di un’Europa green dai molteplici “interessi”

L’epicentro di questo “sisma agricolo” è la nuova PAC (la Politica Agricola Comune), che pone sotto la lente d’ingrandimento le monocolture nostrane, più precisamente quelle di grano duro e mais. La misura di Palazzo Berlaymont vorrebbe impedire il prosieguo regolare di entrambe le semine, affermando che un terreno impiegato per fornire di continuo lo stesso alimento sarebbe una minaccia alla biodiversità, poiché spingerebbe il suolo verso un impoverimento irreversibile.

La contromisura proposta? Un’alternanza forzata nella produzione, che richieda una diversificazione ciclica dei prodotti raccolti e che porti a ritornare alla coltura originale ogni due anni circa. Ma in questa continua e folle rincorsa ai princìpi ecologici ci si dimentica che sono celate le grida di migliaia di imprese contadine, obbligate a “stravolgere la loro routine” per accondiscendere ai capricci interessati di qualche burattinaio europeo, soprattutto a causa della dipendenza dagli incentivi – e per paura dei “disincentivi“- comunitari.

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Confagricoltura: granturco del settentrione “all’improvviso dimezzato”

Le ferite maggiori si profilano nel nord della penisola, epicentro di verdi campi di mais. In Piemonte, Lombardia e Veneto, infatti, trova le sue radici il 70% del granturco italiano, con svariati milioni di tonnellate prodotte nel 2022: 1,2 milioni in Piemonte (ossia il 26,6% del raccolto nazionale), 1,17 milioni in Lombardia (il 24,9%) e 1,04 milioni in Veneto (il 22,1%).

Ma, nell’eventualità di un calo di quella che al momento resta ancora la coltivazione più redditizia, dal 2024 questa abbondanza potrebbe essere ridotta addirittura a zero. E le vaste pianure padane, spiegandoci il motivo di questa visione catastrofista, guardano già da ora con preoccupazione al proprio futuro: “[…]L’Unione europea, come spesso accade, pone maggiore attenzione all’ambiente e meno al mercato, perché non è facile cambiare le colture. Soprattutto quando le aziende devono rispettare contratti con i fornitori, a cui dover garantire determinate quantità di grano a fronte di una produzione che all’improvviso viene dimezzata”, ha dichiarato il responsabile dell’Area Economica e Centro Studi di Confagricoltura, Vincenzo Lenucci.

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Grano del Sud, una lotta per la sopravvivenza (ma le zappe ora dicono basta)

Se l’Italia settentrionale, poi, è il “motore economico della pannocchia”, per capire le problematiche che l’UE starebbe creando al comparto del grano duro occorre scendere sino al “tavoliere”: è in Puglia, infatti, che ritroviamo un po’ il cuore di questa risorsa, così preziosa per fare il pane e la pasta e che Bruxelles punterebbe a sostituire ciclicamente col mais o con altri raccolti. Pare però che, in realtà, ogni alternativa potrebbe non solo dimezzare i guadagni dei coltivatori ma anche compromettere un’intera filiera produttiva, già in crisi per una marea di fattori socioeconomici (molti indotti da due anni di “pandemia”) e in competizionespesso sleale – prima con i container provenienti dal Canada, dopo con quelli “fortemente sponsorizzati” dall’Ucraina (pieni anche di mais…). E il “tacco d’Italia”, anch’esso investito da queste scellerate politiche europee, mostra la stessa apprensione della locale Confagricoltura, non avendo soluzioni concrete in vista.

Dunque, di fronte a questi verdetti bruxelliani” senz’appello (mai richiesti, comunque, e che invece dovrebbero solo tener conto di chi è che paga il prezzo più alto alla fine, stipendio istituzionale incluso), alcune voci di settore ponderano un’opzione radicale: ignorare l’Europa. Molti agricoltori, infatti, starebbero attentamente valutando questa posizione, rinunciando persino ai finanziamenti comunitari, che rappresentavano un sostegno di 150-200 euro per ettaro coltivato. Che sia finalmente arrivato il momento per un “ribaltamento delle carte”, che possa cambiare le sorti di intere comunità agricole? Che alla fine anche i più cocciuti abbiano capito come i fondi di Bruxelles, nei fatti, non siano mai stati né un bene né un regalo e come non servissero nemmeno a “ristorare” niente e nessuno, visto che poi, invece, pare che puntassero subdolamente a comprare (con quattro spicci) qualcosa di molto più importante che si chiama indipendenza (o, se vogliamo, sovranità agroalimentare)?

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Fonti online:

ByoBlu (testata giornalistica ed emittente televisiva nazionale; articolo di Michele Crudelini del 16 ottobre 2023), Il Giornale.it, Modern Money Theory Italia (MMTI), sezione Agricoltura e sviluppo rurale del sito istituzionale della Commissione europea, Wikipedia, sezione Consumi del Corriere della Sera, sito della Confederazione Generale dell’Agricoltura Italiana (Confagricoltura), Il Sole 24 Ore, PHI Foundation, EURACTIVE, sito istituzionale della Commissione europea, Corriere della Sera;

Profilo LinkedIN: Vincenzo Lenucci;

Canali YouTube: Cremona1tv, COLDIRETTI TORINO, Tele Sveva.

Antonio Quarta

Redazione Il Corriere Nazionale

Corriere di Puglia e Lucania

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